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Bressanini spiega come non mangiare Pane e bugie

domenica, 25 Aprile 2010 di

Povero consumatore! Che sia un irriducibile gastrofanatico, un idealista ecologista o un terzomondista solidale, il piatto delle informazioni non confermate sul cibo appare, dopo la lettura di Pane e Bugie di Dario Bressanini, a dir poco ricco. Tra le notizie sul pesto cancerogeno o sul dannoso glutammato con gli occhi a mandorla, tra richiami alla solidarietà con i produttori del Sud del pianeta e l’invito al conteggio dei CO2 mentre si compie il gesto primordiale di portare qualcosa alla bocca, il mondo dell’informazione alimentare appare, (molti di noi ne avevano probabilmente già il sentore), una ridda di leggende metropolitane.

Frutto dell’ignoranza degli operatori dell’informazione (nella migliore delle ipotesi) o di complotti diabolici di portatori di interesse. Sul banco degli imputati, però, il lettore troverà soprattutto i primi (i giornalisti) insieme a scienziati complici e associazioni varie. Perché per i secondi (le aziende) vale quel detto che il denaro non ha odore e che vendere val bene qualche bugia. E in effetti se ai produttori non riusciamo a rimproverare di essere muniti di agguerriti uffici comunicazione e marketing, dal giornalista, dallo scienziato e dal militante della tradizione e del gusto ci aspettiamo, un po’ tutti, la verità.

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Il libro è a tratti rassicurante, a tratti allarmante. Rassicurante quando, confutando le cattive notizie dei media, ne ridimensiona, con approccio scientifico, l’attendibilità. Allarmante quando, nel tentativo di rassicurare, ci svela i retroscena o i motivi di tale inattendibilità. Che poi sono più o meno sempre gli stessi: scarso controllo delle fonti e poco rispetto per il diritto del lettore ad essere correttamente informato (per i giornalisti), ricerca della notorietà attraverso i media (per gli scienziati), eccesso di ideologia (per gli ambientalisti).

L’autore è rassicurante quando prova a smontare falsi e miti e dubbie verità. Come quando afferma che gli OGM sono sottoposti ad “uno screening sull’allergenicità della proteina espressa dal gene inserito”, contestando così l’affermazione, attribuita al comico Grillo, dei sessanta ragazzi morti di shock anafilattico dopo aver mangiato pomodoro geneticamente (e all’insaputa dei consumatori) modificato con i geni del merluzzo. O quando osserva che le sostanze chimiche di sintesi non sono, come invece strombazza il marketing del business “naturale”, necessariamente più cancerogene di quelle naturali (la Natura non è sempre buona e farà comunque piacere apprendere che il 99,9% delle sostanze chimiche che ingeriamo sono naturali!). A dimostrazione che la natura non è sempre buona Bressanini porta esempi come la manioca e i fagioli di Lima, due alimenti capaci di produrre cianuro o il vino e la birra, ricchi di alcol etilico o ancora il succo d’arancia, contenente il d-limonese, risultato cancerogeno in esperimenti di laboratorio sui ratti. Oppure sostanze tossiche presenti in alimenti apparentemente sicuri, e certamente naturali, come basilico, prezzemolo, cannella e anice stellato. O quelle, cancerogene per i ratti, presenti in alimenti come mela, albicocca, banana, basilico, cavolo, melone, carote e tanti, tantissimi altri. Bressanini è rassicurante anche quando constata che possiamo mangiare il pesto tranquilli perché secondo “uno studio del 2002 relativo alla tossicità del metileugenolo nei cibi… le dosi a cui la sostanza  è cancerogena nei ratti sono da cento a mille volte superiori alla dose tipicamente assunta dagli esseri umani”. Ma qui a preoccuparsi sarà il gastrofanatico perché l’unico pesto nel quale la sostanza cancerogena imputata è presente in dosi meno trascurabili e quindi più pericolose per la salute è il pesto genovese Dop, nel cui disciplinare è previsto l’uso di piantine non ancora troppo cresciute dove il metileugenolo è più concentrato.  Proseguendo poi alla voce “rassicurante” troviamo anche il glutammato, sciagura degli appassionati del ristorante cinese, contenuto, come, ricorda l’autore, nel pomodoro, nel Parmigiano Reggiano e, altra cattiva notizia per il gastrofanatico, nei cibi stagionati in generale.

Ma perché tanti “organismi giornalisticamente modificati”, come li chiama Bressanini? Da cosa nasce la “fobia antichimica” di tanta stampa e tv, l’informazione che deforma, il terrorismo alimentare e tutte le ingenuità sulla Natura buona e sulla scienza che diventa cattiva quando entra in cucina come spesso Bressanini spiega sul suo blog?
A questo proposito il pezzo forte sulla disinformatia mediatica è quello della vertenza che ha visto contrapporsi nelle aule dei tribunali canadesi (e negli studi televisivi italiani) un agricoltore nordamericano e la Monsanto. Bressanini rivela che la versione accreditata dai media (e alimentata da aziende e associazioni interessate a diffondere il verbo del Naturale come la Coop, NaturaSì e CIA), non regge ad un esame approfondito delle carte processuali. La storia, come la racconta Il Manifesto il 27 febbraio del 2009, è questa: “La storia di Percy e Louise, contadini nel Sarkatchewan dal 1947 è nota. Nel 1998 si sono ritrovati i campi di colza contaminati da polline di piante OGM brevettate da Monsanto. La multinazionale, invece di risarcirli, li ha portati in tribunale chiedendo loro 120.000 dollari per violazione di brevetto. Dopo sei anni di battaglie legali, Schmeiser è stato condannato, ma l’ultima vertenza (19 marzo 2008) si è chiusa con l’ammissione di colpevolezza di Monsanto”. Invece nella sentenza della Corte Suprema si legge che il caso “riguarda un’attività agricola commerciale su larga scala che ha coltivato canola contenente un gene e delle cellule brevettate senza ottenere una licenza o il permesso. La questione principale è se abbia quindi violato la legge sui brevetti (…). Noi crediamo che lo abbia fatto”. Insomma, furbacchioni canadesi all’opera invece che Davide contro Golia, come titola il paragrafo introduttivo del capitolo dedicato all’affaire Schmeiser.

Ma è soprattutto sul terreno dell’agricoltura biologica che si misura la (in)capacità dei media di informare correttamente. Lo schema è il solito: giornalisti frettolosi danno risonanza a informazioni propinate da associazioni di categoria non disinteressate con la compiacenza di ambientalisti che maneggiano bene lo strumento della comunicazione e paladini del gusto d’antan (Slow Food) accecati dall’odio per i pesticidi.
L’autore avanza qualche ragione per non essere aprioristicamente favorevole all’agricoltura biologica: il cibo biologico non è più nutriente (è arrivata a questa conclusione la Food Standard Agency, l’agenzia britannica della sicurezza alimentare) e solo qualche volta è più buono. Il biologico è, sì, amico della biodiversità e per questo l’Europa e molte legislazioni nazionali sovvenzionano i metodi di produzione biologico ma visto che presenta rese minori rispetto all’agricoltura convenzionale come la mettiamo con l’aumento di fabbisogno di cibo destinato, secondo la FAO, a raddoppiare entro il 2050?

“Che senso ha tuonare contro il vino importato dall’Australia e poi compiacersi per le vendite di vino italiano negli Stati Uniti? Forse che ci vanno a nuoto le bottiglie di vino italiano a New York?” Con questa battuta l’autore passa ad un altro dei terreni su cui si addensano le nubi della disinformazione: la spesa a chilometro zero, da molti ritenuta più sostenibile. E qui, per farsi venire qualche dubbio, gli esempi e gli interrogativi non mancano: inquina di più comprare il pollo ruspante dal contadino (recandosi con l’automobile, ognuno per proprio conto, dall’agricoltore di fiducia) o acquistarlo al supermercato vicino casa dove un tir ne ha scaricati, tutti insieme, qualche quintale? E ancora: è più ecologico, per un consumatore inglese, comprare le cipolle prodotte in Inghilterra (dove per produrle in determinati mesi dell’anno occorre anche riscaldarle, inquinando) o in Nuova Zelanda dove il clima è più mite? Oppure: è giusto comprare dai farmer’s markets, i mercati dei contadini, sapendo anche che un piccolo produttore è spesso più inefficiente dal punto di vista energetico di uno grande?
Senza contare i vantaggi, anche etici, dell’agricoltura globale. La spesa a km zero, ricorda l’autore, se applicata su larga scala, impatterebbe sicuramente con le possibilità di sostentamento di tanti esportatori agricoli africani. E infine, un partigiano del km zero non dovrebbe compiacersi quando i prodotti italiani finiscono sulle tavole d’Oltreoceano visto che per raggiungerle hanno intossicato l’aria di anidride carbonica.

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Pane e Bugie. Dario Bressanini. Chiarelettere, collana Reverse, pp. 308, euro 13,60

Calendario presentazioni del libro.

27 Aprile ore 18.30. Milano, Feltrinelli di C.so Buenos Aires, intervengono: Allan bay e Salvatore Sutera, Direttore Coordinamento Scientifico del Museo Scienza e Tecnologia di Milano.
16 maggio ore 15.30. Torino, XXIII Salone Internazionale del Libro, interviene Marco Bianchi.
23 maggio ore 11.30. Marsala, II Festival del Giornalismo di Inchiesta, intervengono: Marco Bianchi, Diego Maggio, Vera Paggi, Antonio Pascale.