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Naturali o gasati? Quale vino scegliere?

giovedì, 07 Ottobre 2010 di

svinando

I cosiddetti “vini naturali” sono un fenomeno che negli ultimi anni ha polarizzato appassionati operatori e critici spingendoli su due fronti (altri due fronti…) fieramente contrapposti.

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Personalmente non riesco a considerare quella dei “vini naturali” una categoria organica o rappresentativa, trovo la stessa denominazione imprecisa e fuorviante. Conosco e apprezzo molti dei produttori e dei vini che rientrano nella definizione di “naturali” ma ritengo l’aggettivo, estremamente evocativo, improprio: l’uva è un prodotto naturale, il vino nasce dall’attività di homo faber! Il termine è anche estremamente vago perché non definisce con chiarezza i confini della naturalità: è solo agricola (biologico, biodinamico e/o equipollenti) o riguarda anche l’enologia? E qual è il discrimine tra enologia naturale e non? E chi garantisce i consumatori dagli eventuali abusi del termine?

A un rapido esame si scopre che gli standard dell’agricoltura biologica sono molto più tolleranti di quelli adottati da molti produttori, che le certificazioni non sono una panacea e non sono troppo amate (anche per il loro costo) e che i gruppi volontari che stilano codici di autoregolamentazione soffrono di frazionismo e non durano a lungo. Come se non bastasse quando si versano nel bicchiere i vini (che è poi lo scopo del gioco) i risultati possono essere i più disparati e, ne converrete di sicuro, anche questo non aiuta a orientarsi.

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Per completezza di informazione aggiungo immediatamente che alcuni dei vini più interessanti e emozionanti oggi in circolazione provengono da questo circuito e che il fenomeno non può essere trattato con sufficienza; alcuni produttori “naturali” hanno profondamente innovato le modalità dell’espressione delle qualità delle loro vigne, valga per tutti l’esempio di alcuni Domaines della Bourgogne anche se è utile evidenziare che nella Cote-d’Or solo il 6-8% della superficie vitata è stato convertito a questi regimi. Le produzioni agricole sostenibili rappresentano ancora, in tutte le zone di produzione, un’eccezione; buona quanto si vuole ma assolutamente minoritaria. Aggiungo che spesso è impossibile (o vano) convertire i vigneti di una singola azienda agricola: se i vicini restano convenzionali c’è poco da fare!

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In cantina le cose sono ancora più ingarbugliate, le teorie (e le pratiche) sono molto diverse tra loro e non si arriva a una sintesi. I lieviti indigeni, responsabili della trasformazione dello zucchero dell’uva nell’alcol del vino, rappresentano una variabile cruciale ma il loro uso non è privo di conseguenze. La fermentazione è una cosa troppo seria per lasciarla ai lieviti: se le condizioni di vendemmia sono meno che ottimali le fermentazioni diventano una lotteria e per evitare la variabilità della loro azione non resta che affidarsi a ceppi selezionati che sono come Wolf, risolvono problemi…

Dall’uso dei lieviti indigeni discende la necessità della macerazione delle uve bianche con le bucce ma i vini così ottenuti rischiano un’omologazione che impedisce di distinguere varietà e zone di provenienza: Dalla barrique alle bucce cambiano i fattori ma non tutti i risultati.

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Per i consumatori, quelle persone che non leggono i blog sul vino e non chiamano tutti i produttori per nickname che però sanno apprezzare un buon bicchiere, questi vini rischiano di essere un problema: troppo spesso se ne parla in termini esoterici (ok, il metodo di Steiner è iniziatico però…) e vengono descritti e proposti senza possibilità di discussione sulle loro qualità, prendere o lasciare.

E qualche volta conviene lasciare, rinunciando a quelle delizie che risultano, a noi umani, incomprensibili.

Foto: Joseph Drohuin, Archivio TCI