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divinopaolini.cin Sinefinis, Senza confini è il vino che unisce

lunedì, 24 Gennaio 2011 di

divinopaolini.cin (esatto: .cin…) è un aperitivo, trailer e “olivetta” di un sito che avrebbe dovuto vedere la luce tempo fa e che, frenato da impreviste quanto traumatiche circostanze, torna ora in rampa di lancio, avvalendosi intanto dell’ospitalità affettuosa di Scatti di Gusto, basata sul feeling consonante e i rapporti amichevoli con il suo staff. E nulla esclude, dalla mia parte, che essa possa divenire in futuro una coordinata coabitazione.

Giorgio Napolitano con il produttore sloveno Matjaz Četrtič (a destra); in mezzo (il più alto) il presidente sloveno Türk.

Che lingua parla il vino? Se il rumore di fondo di interventi troppo invasivi, ruffiani o mal calibrati non l’ha sovrastata, parla ovviamente la lingua della sua terra. E a corredo, come in un coro intonato, quello della sua, o delle sue uve. La lingua della terra, a sua volta, è indifferente all’umana babele. Se ne frega dei fili spinati, delle sbarre mobili o immobili, delle divisioni daziali e catastali, persino dei titoli di proprietà. Subisce solo, se perpetrati, gli stupri degli inquinamenti e degli sbancamenti, delle cementificazioni selvagge e del prosciugamento delle sue falde vitali. Ecco perché ogni vino che si richiama, per dire la sua, a quel linguaggio essenziale, è fortemente candidato a essere un vino che mi piace: uno di quelli che per me sono (se ben secondati, è ovvio, dalla mano che li fa) i vini giusti. La candidatura diventa poi vistosa se quel vino, per fedeltà alla logica dell’“unica terra” di cui è figlio, ignora senza fare un plissé il particolare che le vigne da cui nasce stiano in due Paesi diversi. Non è un caso unico, specie al confine tra Italia e Slovenia. Ma il Sinefinis (“senza confini”), il vino in questione, è il primo programmaticamente pensato così. E non a caso “inaugurato” con un brindisi tra due capi di Stato, Giorgio Napolitano e Danilo Türk, e i due co-produttori, Roberto Prinčič, San Floriano del Collio, e Matiaz Četrtič di Quisca, Slovenia.

Sembra passato un eone, e invece sono in fondo pochi anni da quando una scuola di Nova Goriça e una di Gorizia, in pratica la stessa città, ma recisa allora a metà da una rigida barriera confinaria, giocarono una simbolica partita di pallavolo che aveva per rete un muro di cinta e adottava una regola speciale: niente cambi di campo, perché per farne si sarebbe dovuti schizzare al più vicino varco di confine (3 km), andare “all’estero”, e poi correre a riprendere posto in campo. Ironico sberleffo alle stoltezze umane, e inno all’Ue in corso d’ampliamento, le immagini di quel match fecero il giro d’Europa. Quelle relative al gioco sfizioso del Sinefinis, sbarcato in Quirinale durante la visita a Roma del Presidente sloveno come calice dell’amicizia tra i due Paesi, paiono chiudere al meglio la parabola avviata allora.

Fosse solo simbolica ed edificante, però, la storia dello spumante sovranazionale (un metodo classico, 18 mesi sui lieviti e 100% Rebula, alias Ribolla, l’uva più autoctona – perdonate la forzatura logico/lessicale – della sua area) ci interesserebbe, ma fino a un certo punto. Qui si parla e si parlerà essenzialmente di vino in quanto tale. Ma proprio in questo contesto il Sinefinis è un caso esemplare. E aiuta a capire.

La terra da vino parla, dicevo su, un suo linguaggio. Decodificabile attraverso la zonazione: un insieme di esami e comparazioni in cui prevalgono gli aspetti pedologici e pedoclimatici (per eventuali irriducibili bungabungers & fan: parliamo di suolo, non di feticismo né di concupiscenza su minori), e che schiude ai vitivinicoltori consapevoli e ai loro consorzi porte preziose di consapevolezza.

Che il Collio/Brda (in italiano e in sloveno) sia di qua e di là del confine un’unica superba, coesa zona da vino, lo sanno da sempre i produttori locali. In primis gli italiani più accorti e fortunati, da sempre muniti di vigne “di là” (anche quando era un’arrampicarsi sugli specchi e ci si scambiava uve da un’apetta carica a una scarica ai due lati della sbarra di confine pedonale riservata ai “residenti”).

A sinistra il produttore italiano Robert Prinčič, in centro Matjaz Četrtič e a destra il presidente sloveno Türk

Oggi che la logica europea ci rende (ancora in parte, ma sempre più) concittadini e consociati, e dopo che l’esperienza dei vecchi vinnaioli del Collio è stata confermata da ogni studio, il messaggio del Sinefinis è trisvalido: ricorda che il vino è terroir nella sostanza, al di là di come esso sia formalmente spartito; riafferma che fare insieme è mille volte meglio che fare contro; ed entra in pieno nel nuovo mood legato alle regole comunitarie: nell’Unione infatti una coerente regione transnazionale, con parametri comuni di sviluppo, vanta, proprio perché nel “drive” unitario giusto, più titoli di tangibile credito europeo di qualsiasi interessato, gretto localismo e di qualsiasi gelosa quanto asfittica riproposizione di presunte eredità post celtiche, cimbriche o anticoromane, di cui frega qualcosa solo a politici populisti a caccia di consensi dalla parte meno produttiva della popolazione: i fessi). Lezione tanto più attuale e preziosa, nel proliferare delle une e degli altri: è di giorni il parto, da noi, di due nuove mini Doc, Villamagna, il cui nome è quello di un Comune chietino di 2.500 abitanti, e Ortona, ancora Abruzzo, ridente località balneare, aggiuntesi al già nutritissimo Risiko delle Dop all’italiana: nessun preconcetto, per carità, tanto più da parte d’un abruzzese; ma siamo davvero certi che sia questa la strada? Esperienze pregresse e numerose non parrebbero così incoraggianti.

Il Sinefinis, figlio legittimo del Collio/Brda, è lì a proporsi come termine di paragone dialettico, nella sua coerenza di vino di territorio, ma dalla vista ampia e lunga: antica nelle radici, moderna nelle implicazioni.

Lo fa, nel bicchiere, con un paglierino dai riflessi erbacei, un naso che parla presto di pesca e di frutta gialla, ma anche di pane e erbe fini. E con un gusto fresco, nitido, ravvivato da una bolla di dimensioni e fittezza giuste, e da un finale asciutto, sapido, di nuovo ben condito di erbe e agrumi, e appena gradevolmente amarognolo, con il risultato di una gustosa lunghezza. Secondo i parametri di Scatti, che mi ospita, e che dunque omaggio ricambiando la cortesia, merita di slancio l’ambita onorificenza del Secchio. Se un limite, minimo, è da annotare, è il desiderio residuo di una minima complessità ulteriore. Centrabile forse allungando i tempi di contatto con i lieviti. Del resto, si sa, fare ancor meglio, per tutti, è una di quelle chance che non hanno confini…