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Monfortino, il più grande vino italiano. Parola di Daniele Cernilli

domenica, 16 Ottobre 2011 di

svinando

Provo a spiegare perché il Monfortino è il più grande vino italiano.

Non è una scoperta ma neanche una cosa così scontata, e la questione mi è apparsa in tutta la sua chiarezza perché da tempo avevo in casa una bottiglia di ’96 ed una di ’61, due fra le migliori versioni, o forse “le” migliori versioni di sempre. È capitata l’occasione di aprirle e l’ho fatto, sperando che fossero entrambe in buone condizioni.

Qualche premessa. Detesto i Barolo troppo vecchi, quelli che vanno su profumi di liquirizia e di glutammato. Adoro quelli che mantengono le note di viola e certi profumi quasi affumicati, il “goudron” dei francesi. Detesto i Barolo troppo aspri e magri, che vanno di moda oggi. Non è un caso che tutti, ma proprio tutti, i grandi esperti di Barolo ritengano che quelli di Monforte e della parte meridionale di Serralunga siano i migliori. A La Morra, a Barolo, fanno vini eleganti, ma meno longevi e meno complessi. I grandi Barolo sono fra la Collina Rionda e la Cascina Francia, forse arrivano alla Ginestra e sfiorano la Bussia.

Infine, adoro il Monfortino, creato da Giacomo Conterno, prodotto per anni da suo figlio Giovanni ed ora, dopo la sua scomparsa, da Roberto Conterno, figlio di Giovanni e nipote di Giacomo. Botti grandi di rovere, macerazioni lunghe, anche più di un mese, uscita sul mercato dopo sette/otto anni d’invecchiamento e capace di decenni di evoluzione in bottiglia. Le uve? Nebbiolo soprattutto Lampia, forse un tempo Giacomo un pizzico di Barbera ce lo metteva, ma ora non si può più. Sapete, qualcuno ha scoperto che non era “tradizione”…

Annate tutto sommato simili, ’61 e ’96. Calde ma non torride, quantità prodotte buone ma non troppo abbondanti (come nel ’64), maturazioni perfette.

Apro il ’96. Il tappo viene fuori facilmente e nell’aria inizia a sentirsi un profumo preciso. Veronelli lo chiamava “il fiato del Barolo”, ma non mi era mai stato così chiaro. Verso in bicchieri grandi, mentre saranno più piccoli per il ’61, che non deve ossigenarsi troppo, con tutti quegli anni sul groppone. Granata intenso, qualche nota aranciata, limpido che quasi riflette la luce e l’amplifica. Lo giro nel bicchiere, poco, poi lo annuso. Non ci vuole molto a farlo esprimere. La cosa che colpisce è l’integrità, le note fruttate e floreali nitide, senza un filo di ossidazione e di appesantimento. Quanti Barolo del ’96 sono già decrepiti? Viene da pensare. Viola, forse glicine, rosa, confettura di lamponi, un’incipiente nota affumicata. Sarà goudron in pochi anni, ma già s’intuisce l’evoluzione. Un sorso, per avvinare la bocca. Poi un altro, piccolo. Subito i tannini, che poi si diluiscono e lasciano il passo a un’acidità salmastra, molto tipica del Monfortino, che ne accompagna il profilo gustativo fino alla fine. Corpo sottile, abbastanza verticale, ma non aspro, anzi, con una dolcezza glicerica che rende il vino equilibrato, setoso, e che ne fa aumentare la persistenza. Ancora giovane ma bevibile. Punteggio? Diciamo 96 ma in salita. Potrebbe arrivare a 98. Non a cento, però. Il finale è lungo, ma non interminabile.
Il ’61 è più duro da aprire, ma il tappo aveva retto bene e non si è sbriciolato. Ci vuole il cavatappi a lame e per fortuna c’è chi lo sa usare. Provo a non decantarlo, vedo che il fondo è meno del previsto. Bicchieri più piccoli, per evitare ossidazioni eccessive, e grande attenzione nel versarlo. È addirittura più scuro del ’96, l’unghia è bruna, il colore granato cupo. I profumi sensazionali. C’è un po’ di liquirizia, ma accompagnata a menta, a toni quasi balsamici di erbe officinali, forse timo secco, rosa appassita, persino un accenno di tamarindo e di china. Non so proprio cosa si potrebbe volere di più da un Barolo, e soprattutto da un Barolo di 50 anni.
Provo ad assaggiarlo.
Bisogna fare attenzione quando si sente un vino così equilibrato. Non c’è un elemento che prevale, è l’insieme. Seta? Armonia musicale? Tutti aspetti dai quali si possono trarre paragoni senza neanche forzare troppo. Sì, seta, la tessitura è quella. Non c’è la cedevole ruvidità del velluto o del fustagno, ma piuttosto qualcosa che non ha asperità, come la seta, appunto. Parlare di tannini, di acidità, ha poco senso. Tutto è integrato e risolto in equilibri superiori, che danno un piacere che non va analizzato più di tanto, ma vissuto e goduto. Anche un punteggio non avrebbe senso. Ma se devo darlo, questo sì che è 100, il massimo, la perfezione. Almeno in un vino.

[Link: Doctor Wine]