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Enologica 2011. I primi piatti di Carla Aradelli a Faenza

Tra gli chef di Enologica, il Salone del Vino e del prodotto tipico dell'Emilia Romagna, c'è Carla Aradelli (Ristorante Riva) con i ravioli di tacchinella
martedì, 15 Novembre 2011 di

svinando

A Faenza, venerdì 18 dicembre, parte la nuova edizione di Enologica, il Salone del Vino e del prodotto tipico dell’Emilia Romagna. Un appuntamento con un cartellone molto ricco che vedrà Scatti di Gusto impegnato nel Caravanserraglio, lo spazio culturale che vuole promuovere l’idea di un luogo di accoglienza che si nutre di scambio, di comunità e di confronto. Se ad Enologica il vino ha un ruolo di primissimo piano, il cibo non è da meno con i tanti espositori del Tipico. E poi c’è il Teatro dei Cuochi, lo spazio in cui i piatti avranno il giusto risalto con 40 posti disponibili a 5 euro prenotabili via telefono allo (+39) 0546.621111 oppure scrivendo via mail.

La patria? Una ricetta complicata. Carla Aradelli, chef del ristorante Riva di Ponte dell’Olio, rifugge dalle provocazioni senza vestire i panni della vestale. Nel Piacentino è nata all’anagrafe e alla ristorazione, ma le radici le ha gettate da sé, come la talea di una vite che da ramo tagliato si trasforma miracolosamente in pianta. Radici come creazione anziché mero presupposto, non per questo meno forti o ardite nel succhiare energie e rêveries dal territorio.
Di innesti del resto ne avrà visti fare dal nonno Luigi, detto Gigiò. Quello carismatico che la portava bambina sul trattore e poi in mezzo ai filari. Cosicché per lei è stato infine naturale miscidare la memoria con i gallicismi di un altro père. Georges Cogny, che quest’anno ha riesumato con un omaggio evergreen. Il tortino di cipolle e tartufi parla con la forza elusiva dell’ellissi, chiudendo due parentesi robuste come dighe sullo spazio bianco della cucina. L’alfa della liliacea, umile incipit universale, e l’omega del tartufo, explicit di lusso. Nel mezzo infinite possibilità e i rebbi di una forchetta indaffarata, novella Proserpina fuggita dalla morsa ipogea. L’ellissi totale (o forse eclissi) come esito finale di ogni minimalismo del levare (e la gittata della nouvelle cuisine all’orizzonte si allontana).
Le parole di Carla hanno la stessa impazienza, un moto che cuce la conclusione addosso alla partenza. Ellittico, impulsivo, compresso come lo scarto di un puledro. Ma le sue mani sanno anche intrecciare storie e tradizioni. Ponte dell’Olio al crocevia di Emilia, Lombardia, Piemonte e Liguria, mercato per barattare grano, vino, olio. Ponte dell’Olio con i suoi tortelli sapientemente intrecciati, lascito della fantasia femminile a celebrazione del re. Un balletto dove i punti di appoggio si scambiano rapidamente di posto nell’incalzare delle coreografie.
La villetta dove ha sede il ristorante è anche la sua casa: “Abitare qui è l’unico modo per conciliare lavoro e famiglia. Perché con me ci sono mio marito Maurizio, che guida la sala e la cantina, e le mie due bambine. È un angolo un po’ magico di Ponte dell’Olio, accanto a un castello del ‘200. L’arteria anni fa era trafficata perché ci passava un trenino e c’era un bar con licenza di trattoria, negozio di alimentari e tabaccheria. Tutto tranne un ristorante, ma io avevo il mio quadernetto e le mie fantasie di diciannovenne. E la famiglia di mia mamma aveva una trattoria, io ho cominciato da lì”.

Ricominciamo dalle origini, allora.

Sono nata e cresciuta a Ponte Dell’Olio. Mia nonna Teresa e mio nonno Luigi avevano un ristorante per banchetti e un’azienda agricola a Monte Santo, a 600 metri di altitudine, vicino a un altro piccolo castello. La passione per questo lavoro l’ho presa da loro. Perché a me della cucina piace la parte di natura, la semplicità delle cose. Detesto il contorno senza la sostanza. Cucino con la pancia e con il cuore, piuttosto che con l’intelletto.
Il lavoro del contadino è un lavoro molto libero. Sei subordinato al tempo meteorologico e alle stagioni. Ma io ricordo mio nonno quando fumava il tabacco, queste cartine, c’erano dei tempi cadenzati, una forma di rispetto. Ecco, mi sono innamorata di questa parte del mestiere: le piccole autonomie. Quando avevamo fame, ma nessuno aveva tempo per noi, il pane abbrustolito sulla stufa a legna ci salvava. E mio nonno era una persona curiosa, perché oltre alle viti e al bestiame aveva le arachidi, il ribes, di tutto. Oggi fra i ristoratori va di moda avere l’orto, ma sono mestieri in cui non ci si improvvisa, occorre tanto tempo per capire.

Torniamo a tua nonna. Aveva messo su lei il ristorante?

La famiglia di mia mamma ha sempre gestito questo posto, che era una locanda con camere. Allora non c’erano i congelatori, tutto veniva preparato praticamente all’ultimo momento. Le paste che si facevano erano sempre le stesse. Ma si partiva dalle materie prime grezze, che il contadino vendeva o barattava. C’era un equilibrio nelle cose. La cucina era quella della banchettistica di allora: i panzerotti, le lasagne, gli anolini, i tortelli, i pisarei. Le tagliatelle, i tagliolini, gli gnocchi.

Hai menzionato solo primi piatti.

Perché è la parte cui mi sono sempre sentita più vicina, mentre mia mamma si occupava dei secondi. Eravamo molto diverse. Io avevo bisogno di avere metodo e ordine, di avere tutto organizzato; mentre lei stendeva e spandeva. Era un conflitto permanente. Con noi c’era personale vagante alla bisogna, oppure qualche parente, mia zia piuttosto che una cugina.

Cosa ti ha lasciato quel locale?

Per me la cucina sono i ricordi della mia infanzia, come la vecchia bilancia con cui mi permettevano di pesare le cose. Mi facevano anche girare la manovella della pasta, mentre i bambini più lenti o dispettosi dovevano mettere a posto gli anolini sulle assi. Poi c’era la componente giocosa, la collana di anellini di pasta essiccata. Questo aspetto è andato un po’ perso nella cucina professionale, ma a me piace molto.

Come sei arrivata qui a Riva?

Mi stupisco sempre quando penso alla mia strada, perché io non avevo un progetto. Ho seguito quello di mia sorella, che poi ha deciso di svoltare. L’apertura è avvenuta nel 1987, appena ultimato il corso con Georges Cogny; Maurizio era già con noi.

Quando hai conosciuto Georges Cogny?

Nel 1984-85, in un corso biennale per addetti alla ristorazione. Ero insieme ad altri venti ragazzi ed è stato complicato, perché eravamo troppo diversi, alcuni avevano attività già avviate, altri un diploma e prospettive diverse.
L’intenzione della regione era dare ai figli dei ristoratori l’opportunità di conoscere una cucina diversa. La mattina alla Cantoniera cucinavamo per noi stessi, apprendendo le basi ma soprattutto una filosofia della cucina. A volte George sceglieva qualcuno per dare una mano con i clienti; mentre il pomeriggio c’erano lezioni teoriche e il mercoledì, quando la Cantoniera era chiusa, andavamo a Piacenza o in giro per caseifici.
Incontrare una persona come Georges a 17 anni, quando non sapevo niente, è stato uno choc. Tanto per dare un’idea, prima dell’inizio noi corsisti abbiamo sostenuto un colloquio con uno psicologo e fra le domande c’era scritto: “Chi è il cuoco migliore che conosci?”. Io avevo indicato mia madre. Poi arrivo là in quella cucina un po’ sacrificata e lui prende in mano un coltello. Da restare a bocca aperta. Un anno mi mandò in stage da Franco Colombani al Sole di Maleo, che era un po’ il paradigma del locale storico del nord Italia, le radici territoriali rispetto alla sua creatività. Avevo un angoletto magico dove dormire e tutte le mattine passavo attraverso un orto, poi c’era la signora che raccoglieva le erbe spontanee, quella che lucidava i rami, un filare di kiwi, l’acetaia del Balsamico…

Gli insegnamenti di Georges Cogny cozzavano con quelli famigliari?

Sì, perché conoscere lui è stato come entrare in un nuovo mondo, ho capito che c’era qualcosa che mi piaceva al di là dell’esecuzione delle solite cose. Ed è scattata la passione. Georges era la parte di follia che mi allontanava dai problemi dell’adolescenza, quando si hanno troppi sogni e nessuna certezza. Ma in certi periodi sono arrivata persino a odiarlo, perché sentivo che mi aveva ingannata, nascondendomi la parte negativa di questo lavoro. Che è tanta.

Ricordi qualche compagno di corso?

Isa Mazzocchi della Palta, la Paolina (mia compagna di stanza), la Betty del Caffè Grande.

Hai continuato a frequentare Cogny anche dopo il corso?

Per tanti anni appena avevo un momento libero andavo da lui, finché non ho dovuto smettere a causa delle visite dell’ispettorato del lavoro. Più che un insegnante di cucina era un maestro e anche un padre, tanto che a un certo punto ho dovuto bilanciarlo, cercare un contrappeso. Ed è così che nel 1994 sono approdata in Alto Adige, dove ho incontrato un altro pazzo, innamorato della sua terra, che mi ha portato in una situazione completamente diversa, ma più vicina a come sono fatta io nelle mie viscere: Hans Baumgartner. Partendo dalle differenze fra noi, mi ha trasmesso la voglia di cercare la mia strada con coraggio.

Come si è evoluta la tua cucina negli anni?

All’inizio c’era un po’ di copiatura, perché attingevo spesso al quadernetto scritto su alla Cantoniera. Mentre le ricette di mia nonna non potevo usarle, perché Ponte dell’Olio era una zona di ristoranti per banchetti, e non potevamo certo competere con chi faceva la stessa cosa da sempre. Ricordo che il primo giorno abbiamo fatto due coperti, senza il bar non si sbarcava il lunario. Operai, rappresentanti, muratori: la gente veniva qua a mezzogiorno nella pausa di lavoro. Poi piano piano ha prevalso la voglia di una dimensione diversa. Ma non credo di essere cambiata.
Personalmente amo la creatività, ma detesto gli abbinamenti azzardati, sul piano del gusto sono un’abitudinaria. Ho sempre avuto il desiderio che i miei piatti rimanessero nella memoria delle persone, come io avevo nella memoria i sapori dei miei nonni. Amo la leggerezza perché sono una persona delicata e la mia cucina mi assomiglia. Negli anni ho sperimentato talmente tanto che per cambiare menu mi basta dare uno sguardo alla mia storia e fare qualche aggiustamento.
Forse oggi mi manca un po’ la follia, la voglia di osare che avevo un tempo. Perché conosco troppe cose, so come vanno eseguite e soprattutto ho un forte senso di responsabilità nei confronti dei clienti, che sento di non poter deludere. Poi ci sono le mie figlie, che mi rubano una fetta di quel tempo che una volta era interamente consacrato ai miei piatti.

Come ti ha influenzato la maternità?

Quando ho avuto le mie tatine ho scelto di non essere più soltanto una cuoca. I bambini con la loro spontaneità possono fare osservazioni che magari un adulto pensa e non dice, e questo mi ha indotto a una maggiore semplicità. Poi c’è stata la fase dello svezzamento con un pediatra naturale che mi ha introdotto a prodotti nuovi.

E il successo?

È arrivato molto presto, quando non avevo ancora trent’anni. Siamo entrati nei Giovani Ristoratori nel ’95 e due anni dopo è arrivata la stella Michelin. L’universo mediatico mi si è schiuso davanti, ma a me non piaceva. Non percepivo un interesse vero per me, quanto piuttosto aspettative e proiezioni. Per cui mi sono un po’ rintanata. Oggi vado solo nei posti in cui sento un’attenzione, altrimenti sto a casa. Visto che qui ho trovato il mio equilibrio.

Che ruolo ricopri in cucina?

Non ho mai lavorato con una brigata vera. Chi viene qui impara a mandare avanti un locale da solo, e la musica che suona può essere solo la mia: un cuoco può partecipare, ma non può fare il fenomeno senza la mia approvazione. A parte una collaboratrice storica, Marilena, sono quasi tutti stranieri. I giapponesi mi hanno insegnato tanto, il rispetto ma anche la tecnica. Hanno un rigore e una determinazione ammirevoli; fare il cuoco per loro è una ragione di vita. Ormai fra di noi c’è un linguaggio anche implicito, tutto un metodo di lavoro. E se li correggo mi ringraziano.

Se guardi alla ristorazione contemporanea, che sentimenti provi?

Mi sento lontana dalla cucina contemporanea, perché la sua cerebralità non mi appartiene: piuttosto voglio trasmettere le mie emozioni, la mia personalità, i miei colori. E non mi interessano le mode, nemmeno il chilometro zero. Queste cose secondo me non hanno senso, perché una persona che ama la propria terra, quel che è di valore lo acquista sul posto, ma il resto deve cercarselo altrove. Noi per esempio prendiamo qui i capretti, gli agnelli, le uova, le verdure dell’orto, i funghi, i lamponi, il tartufo. Mentre altri prodotti li acquistiamo altrove. Non mi interessa praticare il chilometro zero per piacere alla stampa, farne un’ideologia. Piuttosto credo nel tempo e nella stagionalità.
Poi occorre avere un maggiore senso di responsabilità nei confronti dei giovani cuochi, che vanno salvaguardati da modelli impossibili. Quindi basta con i piatti che non possono rientrare nei costi, perché danneggiano soltanto la cucina. Meglio ricette semplici, economiche, ma con dentro un’idea. Perché i conti che tornano sono il fondamento di ogni autonomia.
Chi ha avuto a che fare con persone come Georges o Gualtiero Marchesi, questa generazione di grandissimi cuochi, è come un primogenito. Esigente, per non dire viziato.

Ad Enologica però hai deciso di venire. Cos’è l’italianità per te?

Sapere come è fatta la pianta dei prodotti che uso; sapere da dove arrivano, restando magari in Italia. Sperimentare, ma senza farne una coazione. All’estero siamo ancora quelli di spaghetti e maccheroni, ed è importante non perdere anche quelli.
Ho deciso di partecipare ad Enologica perché si svolge nella mia regione ed è la prima volta che qualcuno mi fa sentire che l’Emilia Romagna esiste davvero. Come piatti porterò il tortino di cipolle di Georges, per riallacciarmi alla mia storia personale, e come evergreen un raviolo di tacchinella con la pasta di castagna, la scorza di arancia e la frutta secca.

Com’è riaffiorato in carta quel piatto di Cogny?

Attraverso una mia cliente che l’ha mangiato per 15 anni. Ho trovato curioso che me lo chiedesse con tanta insistenza. Avevo la ricetta, che era una sorta di icona, perché a suo tempo l’avevo raccolta per i Giovani Ristoratori. Ma non mi sentivo di servire il piatto tal quale, perché mi sembrava sempre troppo povero; così aggiungevo le lumache, il baccalà, un uovo piuttosto che una cappella di porcino. O forse non mi sentivo di replicarlo a causa della venerazione che nutrivo per Georges. Mi hanno fatto notare che da poco ho cominciato a chiamarlo per nome, mentre prima era soltanto “il mio maestro”. Trovo che sia un piatto semplice ma completo, essenziale e tradizionale. È geniale che in un periodo di aragoste e foie gras lui abbia servito per 15 anni un tortino “povero” fatto di cipolle con un sospetto di pancetta, perché aveva sposato la Val Nure, regno appunto di cipolle e salumi. Il risultato è senza tempo, un esempio della cucina cui aspiro.
Anche Georges abitava nel suo ristorante, ed è morto dopo che l’hanno aggiustato, sventrando la sala per adattare l’abitazione ai suoi problemi. Il montacarichi trasformato in ascensore, le porte scorrevoli larghe come la carrozzina. Era come se si fosse rotto l’equilibrio fra la vita e il lavoro.

MAURIZIO ROSSI

“Anch’io sono figlio d’arte: i miei avevano un locale a Genova, che da semplice bar divenne tavola fredda e poi tavola calda. Mia madre era una buona cuoca di pesce, tanto che spesso la nostra cucina di mare è ispirata ai ricordi delle sue ricette. Nel Piacentino restavano i miei nonni paterni, li visitavo ogni estate e alla fine degli studi mi sono trasferito. Certo sono due luoghi agli antipodi, ma non nutro nostalgie.
Nel 1987 con Carla e la sua famiglia abbiamo rilevato il bar trattoria di Riva. Per un po’ abbiamo tenuto il bar, poi abbiamo sistemato la cucina. Ma il salto di qualità l’abbiamo fatto nel ’92-’95, quando abbiamo chiuso il negozio (il bar esiste ancora, ma è al servizio del ristorante).
Ricordo che all’inizio Carla era Georges dipendente, per lei esisteva solo Georges. Poi c’è stato il periodo altoatesino: chiudevamo in gennaio e lei trascorreva là tutto il mese. Da quelle parti sono completamente diversi, molto legati al territorio e ai suoi prodotti. Così Carla ha raggiunto l’equilibrio fra l’estro di Georges e il suo luogo. Andava da Hans Baumgartner, uno che utilizzava l’animale intero, non solo il filetto e lo scamone. Poi è stata dal fratello Karl e da Herbert Hintner. Ed è tornata con i piedi per terra. Passando per le Alpi è rientrata a casa.
È difficile svolgere il tema della patria nel vino. Perché l’Italia è vastissima, abbiamo un patrimonio vitivinicolo sterminato e troppi vitigni diversissimi fra loro. La stessa Emilia è troppo grande, Piacenza è un’isola a sé, mentre la Romagna è più compatta.
Quando siamo partiti la cantina del ristorante era consacrata ai vini piacentini, perché la cucina era locale. Mentre a casa mia avevo Barolo, Barbaresco, grandi Chianti e francesi. Con la crescita dell’offerta di cucina però abbiamo cominciato ad allargarci. Cosicché oggi come oggi di piacentino vendo poco, perché sono i miei clienti a non richiederlo. Tengo in carta due Gutturnio frizzante e il meglio (secondo me) della produzione locale, alcune chicche che mi divertono molto. Per esempio c’è chi in provincia fa qualcosa di diverso, come il Maiolo, un’azienda piccola con vigne di barbera, bonarda, cabernet e merlot. Le uve sono vinificate separatamente, il vino fa solo botte grande e l’assemblaggio è all’imbottigliamento. Oppure l’azienda vitivinicola Marengoni, che ogni anno compie nuove sperimentazioni. In generale la Val Nure è molto interessante perché ci sono La Stoppa, La Tosa, Barattieri per il Vin Santo di Albarola, il Baraccone e altri ancora”.

(Alessandra Meldolesi)

2. Continua

1. Alberto Bettini della Trattoria Amerigo di Savino (Bologna)