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La Cina e l’Islam, il bio e l’alcol. A Porto Cervo per vedere il futuro del vino

sabato, 07 Maggio 2011 di

Alcol. Barrique. Barolo rosé. Suggestione. Emozione. Islam. Cina, straricca e povera. Produzione biologica ed ecocompatibile. Solforosa. Critica di settore, modo di farla, difficoltà di quella italica nello scenario internazionale. E perfino rivoluzioni dei gelsomini e altre in corso d’opera…

Come sarà – era la domanda – il vino del 2020? E le parole più gettonate e ricorrenti nelle risposte e nell’interlocuzione con il pubblico sono state più o meno quelle su elencate. O almeno, attorno a quelle si sono imperniati i redde rationem del dibattito condotto da Bruno Gambacorta (il motore-inventore-conduttore di Tg2 Eat Parade e figura di riferimento dei dibattiti del Wine Festival di Porto Cervo) e in cui a dare (meglio, a provare a dare) le risposte c’erano Michele Bernetti (Umani Ronchi, produttore); Giovanni Negri (scrittore e giornalista, ultimo libro un giallo ambientato nel regno del Brunello, Montalcino); Roberto Cipresso, wine maker (e a sua volta scrittore in tandem con Negri, suo ‘Il Romanzo del Vino’); Alessandro Regoli (‘editor’ di Wine News); Giancarlo Guariglio (curatore della nuova guida vini di Slow) e il sottoscritto, con il cappello di Vini Buoni d’Italia, la Guida con cui da qualche anno lavoro, e che rappresentavo.

Occasione e scenario, la terza edizione del Wine Festival di Porto Cervo, patrocinato dalla Regione Sardegna e ospitato Starwood Hotels, con tutti i sardi di punta e molti produttori di rango non sardi ospiti ocn i loro prodotti (da Cà del Bosco a Grattamacco, per limitarsi a due).

Com’è andata?

Ecco, uno per uno, a mò di post apocrifi, i detti e contraddetti di ciascuno, con accanto a ogni nome quella che secondo me è stata la sua parola chiave.

Michele Bernetti, Umani Ronchi: ecocompatibilità, cioè ‘pulizia’ e meno costi.

Michele ha ricordato l’esperienza a doppio binario della sua azienda, che produce in biologico in Abruzzo e secondo modalità tradizionali nelle Marche, dove ha 170 ettari. Bernetti ha spiegato il senso di una discesa che ha per fil rouge il Montepulciano, ingrediente re del Rosso Conero e che ha il cuore in Abruzzo. Nei 35 ettari rosetani fare il bio si può perché le condizioni pedoclimatiche (per tutte, la piovosità minore del 25%) lo consentono e suggeriscono. Il vantaggio sul mercato? Solo su alcuni più sensibili. Ma il vero punto è che il bio abbassa i costi di produzione (trattamenti, etc.) anche se alza il rischio nelle annate no.

Io: come difendere il bio dai vicini e dai lontani?

Giovanni Negri, giornalista e scrittore: doppio binario sul legno, attenzione all’Islam vicino.

I santoni del calice sono pro o contro per definizione: lui che produce anche un po’ di Barolo in una vigna ereditata e rimessa su per valorizzare il terreno, seguendo il consiglio di un agronomo di Gaja, confessa invece di comportarsi ‘da mignotta’. La barrique la usa perché in Massachusetts e nel resto degli Usa vende 11.000 bocce che senza non vorrebbero, in Italia ne sminuisce l’importanza con le ‘excusatio’ ormai solite (secondo passaggio, solo una parte, etc.) di molti produttori ‘pentiti’. Ma più importante ancora della barricata sulla barrique a Negri sembra la svolta in corso nel vicino Islam mediterraneo, dove il consumo sottotraccia di alcol malgrado le prescrizioni non è mai sceso, anzi (Negri ha parlato di proibizione equiparabile a quella del sesso matrimoniale per i cattolici, da noi), e gli ultimi eventi potrebbero sdoganare un ulteriore consumo giovanile e la piena ripresa di una produzione oggi in gran parte dormiente.

Infine, il rischio incombente: che il vino in quanto identificato ‘alcol’ finisca nella lista del male, come il tabacco. Il rischio del papà che riprende la figlia in disco, e gli ritirano la patente per un calice in più mentre dentro i ragazzini si fanno di tutto. Passasse un Pensiero Unico Dominante così, conclude Negri, non stupitevi se il vino diventa dealcolizzato e il Barolo un rosé.

Roberto Cipresso: meno solforosa (zero non si può), e sempre più suggestione (farne a meno sarebbe la morte del vino).

Un male necessario per far crescere la qualità del vino. Obbligato per farlo vivere. Cipresso definisce così l’uso di solforosa in imbottigliamento. E racconta anche l’’eccezione’, il Prosecco No S02 che si fa nell’azienda Bisol per cui lavora, frutto dell’intuizione di Desiderio Bisol che su un vino di così pronta beva, e che è poi protetto in modo speciale dal packaging una volta in bottiglia, l’azione riducente della carbonica possa far fare a meno di solforosa. Più che una soluzione, non esportabile agli altri vini, e comunque fragile e responsabilizzante per la filiera che distribuisce e vende il prodotto – spiega Cipresso – è un messaggio. Uno di quelli che danno al vino la suggestione di cui vive e vivrà. Specie il nostro se vuole arrivare in salute al 2020. Quando faremo i conti con consumatori che daranno per scontate molte cose, dalla parola ‘qualità’, ritenuta un primo gradino, allo sforzo di ecocompatibilità. Noi abbiamo storia e argomenti, perfino un’uva di Venezia ritrovata, il cui vino va bevuto guardando o sognando tramonti su San Marco, dogi e Polo (Marco, non Nord). Ultimo suggerimento, tornare agli incroci ‘sessuali’, da seme per la vite, cui una vita da talea senza sesso toglie vigore e salute.

Alessandro Regoli: raccontare il vino con un linguaggio chiaro e umano (addio al ‘cavallo sudato’) e ritorno all’’amicizia’ col cibo.

Forte dei 28.500 indirizzi mail che contano cui ogni giorno Wine News spedisce con successo la sua newsletter, e del lancio del primo ‘quotidiano web’ del vino, Regoli batte forte sul tasto dell’enolinguaggio criptico e autoreferenziale caro a guru e sottoguru del calice, per dire che finirà, anzi deve finire subito, perché fa danni. E sottolinea la gravità della perdita del ruolo del vino come ‘companion’ a tavola. Dunque, si aprano bar e aperitivifici al mondo del vino, e si giochi almeno sul vino-e-panino ogni volta e ogni dove si può. Anche in tivù, basta bicchieri che girano in primo piano. Più storie, più racconto. Più vita. E una critica italiana che sappia accreditarsi all’estero dove oggi conta poco, o nulla.

Giancarlo Gariglio: il vino del 2020 sarà più buono perché è migliorato il campo, la vite. Rischi dalle crisi post Towers e successive per la fragilità dei prezzi delle uve.

Due, dice il curatore della nuova Guida Slow (senza punteggi), gli scenari possibili. Uno positivo, che emerge girando per visitare le aziende (loro visitano tutte quelle in Guida). La sensazione è di un’agricoltura dedicata cresciuta molto, con impianti importanti, ricerca (fatta dai privati) e passi da gigante per gli autoctoni. Perciò il vino del 2020, nato da viti dell’era post ’85, sarà migliore. Il rischio? Il crollo pilotato dal mercato della bottiglia ‘qualsiasi’, del prezzo/valore delle uve, che potrebbe affossare proprio gli esiti di questo Rinascimento italiano, rendendo utopia tutto ciò di cui si parla. Quanto alle Guide, entrino (come penso abbia fatto la sua) in era post Parker. All’Advocate – dice Gariglio – dobbiamo tutti molto, ma ora il conto è chiuso, occorre voltare pagina. E metodo di giudizio. Cosa penso io? Non ‘un’ vino, ma ‘i’ vini del 2020, tanti quanti i grandi (e divaricatissimi) segmenti di un mercato in rivoluzione.

Ci siamo noi, gli appassionati storici, i paesi storici, i mercati storici, che berremo e parleremo dei vini di fascia media/medio-alta (se potremo permetterceli e non finiremo come la Grecia, che ora che fa buoni vini e ha aumentato i prezzi come noi negli Ottanta/Novanta non se ne può più comprare una goccia), flirtando al solito con le mode (ma da frenare, o critici che ne abusate a scopo autocelebrativo, perché la viticoltura non è una gonna che un anno la porti corta e l’anno dopo lunga. Per fare un vigneto, un’azienda seria, un drive, occorrono lustri e non si può né si deve rivoltare tutto perché così parlò lo Zarathustra del Mandrione o della Padania di turno). Ci sono loro, i nuovi paesi e luoghi di consumo del vino che già così nuovi (Usa, Centro e Sudamerica, Australia, etc.) non sono più. Con loro va giocata una parte della partita dell’export, un po’ in gara e un po’ seducendoli. Ma parlando inglese, e non pretendendo di insegnargli tutto perché semo fighi, o di intortarli con le nostre ‘quasi regole, però…’. Loro non le capiscono. E poi ci sono gli altri. Uno per tutti, i Cinesi.

Quelli straricchi compreranno, come fanno già, prestigio. status symbol verticale. E quello è un campionato per pochi (e italiani pochissimissimi). I poveri berranno, se berranno (come todos comunque speriamo) da 0,60-0,70 al litro. E quello forse non è il nostro campionato. Dunque: scegliere bene il campionato anzitutto, o alla scadenza proposta da Gambacorta come screening, magari non ci si trova all’appuntamento. I producers poco avveduti, dico. E noi? Beh, siamo vecchietti, come del resto l’Italia tutta, ma si farà uno sforzo. Io ho ancora 1.100 bottiglie in cantina, al netto di magnum e doppie. Il vino del 2020, insomma, io ce l’ho già… digiamogelo… e una botta mi piacerebbe dargliela…

Foto: Tiziano Canu, montenapoleoneweb.com, rametz.com