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Vitigno Italia. A Napoli l’appuntamento con i cru campani, tesoro estremo

lunedì, 23 Maggio 2011 di

Prove tecniche di Terroir “I crus della Campania”: Antonio Paolini, Giovanni Ascione. Due percorsi in uno. Belli assai. Il primo: un castello sul mare, tante sale, lunghi corridoi. Ci vuole la mappa del tesoro, per passare da un posto all’altro. Il tesoro è la mappa del secondo viaggio.

Sono i vini da vitigni indigeni nazionali che Vitigno Italia, il festival napoletano del vino, bella formula ormai arciconsolidata, offre ogni anno nella cornice unica di Castel dell’Ovo. Un bel po’ di produttori, attrazioni vere (esempio, Piero Palmucci e i suoi Rossi che sembrano Brunello e i Brunello che sembrano, toh… straBrunello, e che Brunello!!). E poi degustazioni a tema, di ogni genere. Ad esempio, quella dedicata alla Campania e ai suoi cru, le pazzesche varietà e i luoghi estremi di una regione che per tutti è golfi, costiere, isole, mare, pizza e tuppete, e per chi fa vino è lavoro spesso impervio ma straordinario, in bilico tra moderno ed estremo e le atmosfere da Indiana Jones del vigneto.

Prendi per esempio il primo vino dei dieci che sto per raccontare, e che hanno scandito la degu affidata indegnamente al sottoscritto e a Giovanni Ascione (campano doc, e mitico conduttore dal piglio straordinariamente laico, colto e informato, e perciò capace di scorrer via assolutamente easy, profondo senza pesare o parere). Il vino di debutto è:

Grotta del Sole Asprinio Metodo classico. Ed è subito sintesi. Due tycoon del modern italico, Attilio Pagli in cantina e Federico Curtaz nel campo, per vigneti fuori dal mondo e dal tempo. Vite maritata, cioè attaccata ai pioppi a formare alberate da 15 metri di quota su cui si sale con scale da… circo. L’azienda lavora anche su Greco e Tufo, ma i suoi clou (e cru) speciali sono quelli dei Campi Flegrei. L’Asprinio è quella roba di cui il buon Soldati scrisse: … profuma appena, e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non si può immaginare se non lo si gusta… Che grande piccolo vino! Il nostro ha più corpo, meno asprezza, 36 mesi sui lieviti, sa di agrume fine ma si arrotonda un po’. Con la bufala va sempre bene, ma con i piatti di mare di più. E lo laurea una produttrice Franciacortina, lady Muratori (vedremo perché presente) che lo definisce: uno splendido metodo classico. Non esageriamo: però 2 scatti e secchio ci stanno tutti…

Secondo step: da estremo a estremo, dai pioppi verticali alle altrettanto verticali pendenze dei vigneti di Ischia, che si vendemmiano… in funicolare. Il Casa d’Ambra Frassitelli 2010 è il prodotto ultimo di un marchio che dal 1863 vuol dire vino di Ischia. Frassitelli è il cru dei D’Ambra, che peraltro comprano da sempre un fettone (in proporzione) della risicata produzione isolana. Vigna vecchia 4 ettari nell’omonima località, poi altri appezzamenti di contorno e, a riprova che qua non si pazzìa, un campo sperimentale con tutte le uve delle radici ischi tane e non solo, ovvero Guarnaccia e Guarnaccello, Coda Cavallo, Streppa Rossa, Rillottola (Uva Rillo), Don Lunardo, Catalanesca, Uva Romana, Uva Procidana, Uva Coglionara… per vedere se da qualcosa si può trarre un pezzo ulteriore di futuro enoico locale. Questo Frassitelli, da Biancolella al 100%, parla ancora mezzo e mezzo al naso, ma si fa già sentire in bocca. Sa di fiori, ginestra in primis, e frutta gialla leggera: ma è tutt’altro che esile, grazie al batonage e al lungo nutrimento da fecce fini. Ci sta: 2 ½ scatti. E lavoro futuro dagli scampi al coniglio freddo. Ischitano, ça va sans dire.

Il terzo vino è un Greco, figlio di un ramo di quella famiglia (dinastia?) Mastroberardino che più di tutte forse ha fatto (e in un certo senso disfatto) per le epopee di Greco, appunto, e Fiano, e anche Aglianico negli anni dal Settanta in poi. Il Terredora: Terre Degli Angeli 2010, prodotto dai vigneti di Santa Paolina, arrampicati sulla cima di Montefusco, pinnacolo dell’Avellinese, a ben 650 metri di quota (ci risiamo con le robe campano-estreme) ha tutte le stimmate potenziali del vino seminale. Ma in realtà è un ragazzino perfetto, inappuntabile, ma molto educato. Avete presente quelli che dicono sempre: grazie, prego, buongiorno signora, etc? C’è un inappuntabile lavoro dietro, e si sente; il vino è buono, manca forse un filo di souvenir “selvaggio”, di resine e di grecità contadina. Ma 2 scatti li prende a occhi chiusi. E migliorerà.

Poi, quando il gioco si fa duro… ci si incomincia ad entusiasmare. Scende in campo “il” Fiano. Clelia Romano Colli di Lapio 2009. E sia sempre benedetto quel giorno del 1994 quando la sòra Clelia insieme al marito Angelo decise di lavorare direttamente le uve allevate ai 550 metri di Scarpone, Stazzone e Arianello, e di varare questo vino “freddo” di terre calde che persino in un’annata sfigata come il 2009 (un combattimento!) ti lascia senza parole. Dai 5 ettari in tutto (meno di 50.000 bottiglie) della famiglia, le uve che Angelo Pizzi, l’enologo, destina a questa partita sono evidentemente sempre cariche di personalità. Il Lapìo dei Romano è insieme drastico e lungo, fresco e consistente, minerale e floreale, e finisce con un allungo di melone d’inverno e agrumi delizioso. 3 ½ scatti, e un paio di secchi.

Altro giro, altra corsa, altra “signora maestra” del vino, e altro posto da navigatori soltari del vigneto. Furore, la terra del Marisa Cuomo Fior d’Uva 2008, rocce dolomitico-calcaree, terrazzamenti a 500 metri, lavoro combinato di sole, vento, azione iodica del mare di Amalfi. Tre uve (no Falanghina in questo che è il vino alto aziendale), e cioè, Fenile, tirato a pergola, maturo ai primi di settembre, buccia fine e vendemmia delicata; Ginestra (ex Bianca Zita) creduta erroneamente Falanghina super fino a qualche tempo fa, poi tipizzata come varietà originale: tosta, produttiva, di raccordo, profumi come da etichetta; e Ripolo, piccole aree, incostante e capriccioso, grappolo piccolo, ma… Parte da lì questo vino che sa di canditi, di albicocca secca, di poutpourri da cassetto; che fa legno (ma bene), ed è largo, sontuoso, ammorbidito, ma non domo né stanco. E vale 3 scatti.

Si cambia colore. E ovviamente zona. Eccoci in contrada Rivolta, Torrecuso di Benevento. Qui i Cotroneo, nella Fattoria La Rivolta (battaglieri, i ragazzi) producono il Terre di Rivolta. Nel calice, il 2007. Buon esempio del lavoro iniziato nel ’97, dieci anni addietro, prima bottiglia firmata nel 2001. Roba relativamente nuova, quindi. Ma dal gusto giusto.

Sono circa 29 gli ettari coltivati a vigneto. Le uve sono tutte appartenenti alla doc Taburno o Sannio. Il mix è di vecchia vigna, e nuova, a spalliera con guyot o cordone speronato. C’è Falanghina, Coda di volpe, Fiano, Greco, Piedirosso. Ma il nostro 07 è un Taburno Riserva, 100% Aglianico fermentato in acciaio e poi allevato 18 mesi in barriques nuove e 18 mesi in bottiglia. Ha alco, estratti, lieve tostato, ma acidità sensibile, contrasto gustativo, e non stucca. 3 scatti.

E quanto a contrasti, non dice ma “urla” la sua il prossimo degustato: Il De Conciliis Naima 2006, nativo di Prignano Cilento, penisola Salentina, figlio di gente dal piglio giovane, artisti, colmi di amore per la musica. E per la loro terra, descritta così: “E’ fatta di colline di macchia, trame complicate di rocce indecifrabili, e improvvisamente si apre al mare, nell’azzurro incontro con il cielo. L’occhio di chi arriva o di chi va via volge alla meraviglia talvolta all’inganno mai alla noia. Così i vini”. E come dargli torto? Rosso Igt Paestum, struttura indiscussa, ma Ph sotto 3,3 Naima rende onore ai toni da sax soprano e a quelli del contrabbasso, armonizzando e improvvisando. “Aspro e dolce insieme” lo vuole chi lo produce. E con un accorto mix di vigne di quasi quarant’anni e più fresche, passaggi in barrique, tonneau, acciaio, c’è riuscito. 3 ½ scatti alle meno di 12.000 bocce prodotte.

Il Villa Matilde Camarato 2005 prodotto dalla famiglia Avallone, e fer de lance della rimonta del Massico, terreno vulcanico che dà il carattere fortissimo a una terra meno scoscesa e alta di molte delle altre qui raccontate, lo firma in cantina Riccardo Cotarella. Dunqe, ha certi tipi di imprinting. Ma (chi mi conosce lo sa, l’interessato può confermare) più di una volta ho detto a Riccardo che ci sono dei vini che lui fa, in Italia e segnatamente in Campania, che sono talmente tosti da opporgli, per così dire, una individualistica, divertente resistenza. Uno è il Terre di Lavoro. L’altro è il Camarato. Un vino che amo quasi quanto il bianco di famiglia, che trovo un vero “noumeno” del suo genere per il territorio. Dunque, 3 scatti a salire per questo.

Aglianico 80%, Piedirosso 20%, prodotto in 20.000 esemplari, prima uscita 1981, prodotto solo nelle annate degne con uve raccolte nel vigneto omonimo, uno dei più vecchi di Villa Matilde, e affinato in rovere di Allier per 12 mesi (1/3 nuove, 1/3 di secondo passaggio, 1/3 di terzo; bottiglia altri 12/18 mesi). Me piace…

E mi piace un tot il number 9 della serie, ovvero il Salvatore Molettieri Vigna Cinque Querce 2005, Taurasi Riserva, vino che credo di aver capito bene il giorno in cui sono andato, grato dell’invito, all’inaugurazione solenne, con benedizione solenne e signore meravigliose e “autoctonissime” che cucinavano a vista e a josa come per una comunione o un battesimo d’antan, e le stesse cose che avrebbero fatto per l’occasione. E la cantina-cantina di Salvatore era pronta e perfetta, come ogni strumento di lavoro che si rispetti, ma la parte casa/accoglienza aveva la scala ancora senza ringhiera, e tutti, pur avendo bevuto e mangiato i massimi, ci camminavano con attenzione estrema, perché mai e poi mai avrebbero voluto, cadendo, dare un problema al padrone di casa in quel gran giorno di festa. Cinque Querce è così, antico e nuovo, fortissimo e ospitale, mai scontato, mai stucchevole. Un vino da 4 scatti, e secchio no, perché sennò finisce troppo subito. Come questo 2005, miracolo di annata difficile, una non eccezione che conferma la regola.

Ci porta diretti al perché della presenza di lady Franciacorta-Muratori, e ci riporta a Ischia, dove in una delle quattro aziende di famiglia (quella bresciana, una in Maremma e due in Campania) si fa questo Passito d’Ischia Giardini Arimei, battezzato argutamente “da conversazione” (addio alla meditazione solitaria… ;.) e con soli 30 grammi di zucchero residuo. E’ prodotto da uve Biancolella, Forastera, Uva Rilla, San Lunardo e Coglionara raccolte con vendemmia definita tristagionale, si parte che è estate e si ifnisce in inverno, aggiungendo via via uva al mosto (un “governo” di fatto) per ottenere un vino che sta sui formaggi, ma non solo. A merito di chi lo fa, l’impegno (non solo a Ischia, in tutte le aziende) ecologico dell’applicazione di un protocollo di accorto bilancio energetico (con forti rinnovabili e uso oculato) e minimizzazione dei trattamenti con fitofarmaci. Risultato: risparmio ambientale e di soldi. La bottiglia virtuosa, alla fine, costa anche meno. 2 scatti al vino, allora, e un fiorellino “verde” a chi lo fa.

Foto: Alessandra Farinelli per E26