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Vino | I R.E.M. fanno scegliere l’etichetta. Ma la musica non c’entra

martedì, 04 Ottobre 2011 di

Barolo o Brunello? Boh… 1985, 1996, 2004…? Mah… Uvaggio o monovitigno, autoctono o alloctono? Si vedrà. Quel che conta davvero è, pare, l’intensità del mix carattere-colore dello script, e quella figura che a centro etichetta fa da focus per lo sguardo di chi acquista. Più che questione di cru, insomma, sarebbe questione di rètina interna… La spiegazione? Si chiama R.E.M.

R.E.M. non è solo il nome di uno stragruppo mito del rock che, ahi dolore, si è sciolto, pare definitivamente, qualche giorno fa. Rapid eye movements, movimenti oculari rapidi, l’acronimo sottinteso, battezza il dài e vai a botte di millesimi di secondo per mossa che fanno gli occhi in due fasi estreme della coscienza: quando si sogna, e quando si vuol valutare a tutta velocità un elemento esterno. Ad esempio per decidere se è una roba che può farti male, anche molto male, tipo un puma, un Frecciarossa in corsa o il traffico di Roma mentre passi sulle strisce, o bene, anche molto bene, tipo la bottiglia di vino giusta.

Supponiamo, per comodità (e anche perché questa è una rubrica di vino, e non lo spazio della premiata ditta Angela & Figlio) che sia la seconda che ho detto. Beh, sapete come si sceglie il vino giusto? A colpo d’occhio, appunto: e, secondo la ricerca pilotata da un illustre neuropsicologo cognitivo ingaggiato per l’occasione, il professor Bruno Laeng, cattedra ad hoc all’Università di Oslo. E non guardando d’impatto le cose che verrebbero in mente a tutti noi, cioè il nome proprio del vino e di chi l’ha fatto, l’annata, l’uvaggio etc. ma in blocco l’etichetta, e al suo interno l’elemento grafico, il design, e la interrelazione tra i vari elementi costitutivi che lo caratterizzano, in base a 5 criteri: il loro equilibrio, la ritmicità interna che li lega, una sufficiente unità tra gli elementi, la proporzione all’interno del suo disegno, la presenza di un elemento dominante capace di fare da polo d’attrazione per lo sguardo di chi osserva.

Come si è arrivati a concludere quanto sopra? Misurando con sistemi di oculometria bersaglio e durata degli sguardi di chi punta con gli occhi una serie di bottiglie, cercando tra esse la propria: quella che acquisterà. L’esperimento non è nuovo. Fa già parte del campionario di studi condotti dalla grande industria sulla capacità di attrazione, penetrazione ed efficacia dei packaging progettati per una serie di prodotti di largo consumo (sorpresa: anche prodotti in teoria insospettabili, come i farmaci, per i quali la spesa per il “vestito” è stupefacentemente alta, visto che il loro effetto prescinde palesemente dal colore scelto per la capsula o il dressing della scatola che la contiene). Ed è basato su constatazioni esperienziali incontrovertibili: quella, ad esempio, secondo cui mostrando per due volte un (complessissimo, magmatico e totalmente afigurativo, avete presente?) quadro di Pollock a un osservatore non prevenuto, a distanza di una decina di secondi tra le due “esposizioni”, la traccia spaziale e temporale (bersaglio e durata dello sguardo) si ripete pressoché uguale, fissandosi sugli stessi punti per lo stesso numero di frazioni di secondo. E’ la prima volta però che questo sistema di rilevazione motivazionale viene esteso al vino.

Attenzione però: secondo logica, il campione usato dall’emerito neuropsicologo di Oslo è un campione di casa sua: norvegese, cioè, e dunque un campione scarsamente acculturato sul fronte vino. Uno dei soggetti di cui sono stati con insistenza mostrati i “cerchietti” pulsanti che determinavano l’attrazione verso questa o quella etichetta (e relativa bottiglia) è una 23enne norvegese che di vino sa quanto me di allevamento delle renne. Un target ben diverso, dunque, dai para-maniaci che costituiscono, I suppose, il grosso del pubblico di questo sito, e di cui volente o nolente anche il sottoscritto sa di far parte.

Ma in realtà il target che conta per chi esporta vino in paesi emergenti, dal punto di vista del mercato di settore, un pubblico di quasi rookies che acquista, per lo più, non in acculturate enoteche, ma in market affollatissimi di referenze, di merci, e che persino una volta (quasi) decisosi a comprare italiano, barcollerebbe come un lituano apostrofato in sanscrito di fronte alla per lui incomprensibile litania di denominazioni, uve, provenienze, microzone, testimoniate nelle nostre orgogliose quanto poco ecumeniche retroetichette.

Per tarare il potere dell’etichetta su un pubblico enoicamente più adulto, e affettivamente molto più coinvolto sull’oggetto vino, tipo il nostro, è allo studio una successiva serie di approfondimenti. Interessati, ma seri, visto che a indurre tutta la storia è uno degli studi più famosi per la progettazione delle etichette medesime, il Doni & Associati, che ha tra i propri clienti fior di eno-griffe (molti tuscan e supetuscan, e non solo). Previsto il varo di un focus group, ad hoc e a breve, di cui sarà un piacere raccontare gesta e risultati.

Quelli riassunti sopra sono stati peraltro illustrati all’interno di una delle cornici più promettenti e intriganti, insieme, degli ultimi tempi: quel Wine Town capace di rimettere in rete tra loro le bellezze straordinarie di Firenze, spalancando palazzi storici e cortili meravigliosi, e il prodotto, “nobile” quanto gli stemmi inquartati dei titolari e/o fondatori del magioni, delle colline che la circondano: il vino. Ovviamente, non solo vini toscani, pur presenti in straripante maggioranza: ma anche, ad esempio, un piacevole spazio Champagne.

A far da sponda alle degustazioni (schede vino in altra sede del sito, via via, prossimamente) deliziose performance di artisti vari: su tutte, per il sottoscritto, il piano solo concert (mooolto Jarrett of Italy) di Danilo Rea: variazioni e improvvisazioni dentro una suite infiorata e punteggiata da temi di songs celeberrimi ed evidentemente significativi per Rea: una serie eclettica quanto coinvolgente, aperta con “Here comes the sun” e chiusa con “Across the universe”, passando per “Besame mucho” (il che non sorprende poi troppo) ma anche per il Celentano di “Una carezza un pugno”. Un vintage strappacuore che ha commosso anche i cuori più duri (purché dell’età giusta”) tra i presenti, ma nobilitato da una arguta, sapida vena percussiva sui tasti neri della mano sinistra di cui il ragazzo della via Gluck, come dei grattacieli che poi gli cancellarono l’erba, non avrebbe mai, con ogni probabilità, di suo, posseduto contezza.

[Foto: sv.uio.no, nove.firenze.it, redfishlab.wordpress.com]