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La biblioteca. Il classico dei classici, le ricette di Pellegrino Artusi

domenica, 13 Febbraio 2011 di

svinando

Questa rubrica, la Biblioteca di scattidigusto, nasce da una chiacchierata col Direttor Pagano nella quale osservavo come in libreria, cercando l’ultimo Eco, mi sono soffermato ad osservare la parete di libri di cucina a disposizione dei clienti. I libri di cucina – sia subito chiaro – uniscono due mie grandi passioni: per l’appunto i libri e la cucina. Eppure, si direbbe, il libro è abbastanza distante da quelli che sono gli elementi passionali del gastronomo: non trasmette odore, se non quello della carta (peraltro buonissimo, se la stessa è di qualità: qualcuno si ricorda del topo Firmino?), non si addenta, non si gusta sul palato ma casomai nella mente e, infine, il libro ha il vantaggio che, una volta finito, si può conservare o ricominciare: difficile da dire lo stesso di una buona carbonara!
Eppure il lettore sa che il racconto del mangiare, o la descrizione di certe ricette, hanno la capacità di farci non solo immaginare il piatto, ma addirittura quasi di gustare e assaporare quanto narrato. Penso alle ricette immorali di Vasquez Montalban, o ai pranzi di Nero Wolfe, per non parlare delle cene del Gattopardo o degli, oggi imperanti, arancini di Montalbano…
E, poi, bisogna ammettere che forse i migliori libri di cucina non sono quelli stampati, ma quelli scritti a matita su quaderni e fogli sparsi: le vecchie ricette di nonna o mamma, tramandate gelosamente e custodite come un tesoro.

Fatta cotanta premessa, e chiarito che questa prima recensione avrà carattere più introduttivo che valutativo, ho deciso di aprire con un libro che è uno dei tre pilastri – con il Cucchiaio d’argento ed il Talismano di Ada Boni – delle delle biblioteche culinarie italiane. Sto parlando, è chiaro, di “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi. Parlare dell’Artusi in poche righe è impresa ardua: dalla prima pubblicazione del 1881 ad oggi sono trascorse oltre 111 edizioni, curate dall’Autore fino al 1910 e poi successivamente da eredi, cuochi, e cuochi eredi, che hanno cavalcato oltre un secolo descrivendo la cucina italiana in modo chiaro e semplice seppur mai banale.

Già il sottotitolo dell’opera – “Manuale pratico per le famiglie” – indica chi è il destinatario dell’opera: non il cuoco professionista o la grande cucina, ma la normale famiglia italiana dell’epoca (e, visto il successo, direi anche delle epoche successive) che dal libro può trarre spunti per la vita quotidiana.

Cosa contiene l’Artusi? Innanzi tutto, come dice la copertina, ben 790 ricette divise in una ventina di categorie, alcune per noi desuete (come i rifreddi o i principii), altre ancora validissime. E, poi, una Appendice (“La Cucina per gli stomachi deboli”) e la descrizione di alcuni pranzi comandati, con l’intenzione di aiutare la composizione delle portate.

E’ vero, molte delle ricette risultano oggi fuori moda o non più facilmente praticabili. La cucina, si sa, è anche figlia del suo tempo, e negare che siano passati 120 dalla prima edizione sarebbe una assurdità. E’ vero però anche che la struttura della cucina italica è rimasta immutata, e sfogliando il libro ne abbiamo testimonianza. Ci sono elencati mille modi di fare i risotti, le zuppe (forse ormai fuori moda, ma che bello leggere la zuppa di ranocchi, ricetta n. 64!) e le paste (a casaccio: maccheroni con la balsamella – n. 234!), per non parlare delle carni, di tutte le qualità (sempre a caso: Fegato di vitella di latte alla militare – n. 337).

Insomma un ventaglio composito e variegato e confesso che l’Artusi, al di là della preparazione delle ricette, è bello e piacevole da leggere, con quel passo ottocentesco per me sempre affascinante. Certo, non sarà sempre il nostro manuale di ricette da tenere a portata di mano, e tante cose saranno quantomeno impolverate, ma l’odore e il sapore della storia sono affascinanti come pochi.

Alla prossima e intanto date un’occhiata a una ricetta (non troppo a caso!)

Ricetta n. 333   Trippa alla corsa

Sentirete una trippa unica nel suo genere, di grato sapore e facile a digerirsi, superiore a tutte le altre fin qui conosciute; ma il segreto sta nel trattarla con sugo di carne ben fatto e in grande abbondanza, perché ne assorbe molto. Oltre a ciò, è un piatto che non può farsi che in quei paesi ove si usa vendere le zampe delle bestie bovine rasate dal pelo, per la ragione che quella cotenna collosa è necessaria a legare il sugo.

Trippa cruda, grammi 700. Zampa senz’osso, grammi 100. Burro, grammi 80. Lardone, grammi 70. La metà di una grossa cipolla. Due piccoli spicchi d’aglio. Odor di noce moscata e spezie. Sugo di carne, quanto basta. Un pugnello di parmigiano.

Dico cruda la trippa perché in molti paesi si usa venderla lessata.

Dopo averla lavata ben bene, tagliatela a strisce non più larghe di mezzo dito e così pure la zampa. Fatto questo, trinciate minuta la cipolla e mettetela al fuoco col burro, e quando comincia a prender colore aggiungete il lardone tritato fine colla lunetta insieme all’aglio. Allorché questo soffritto avrà preso il colore nocciuola, gettaci la trippa e la zampa condendole con sale, pepe e gli aromi indicati, ma questi ultimi a scarsa misura.

Fatela bollire finchè sarà asciutta, indi bagnatela col sugo e col medesimo finite di cuocerla a fuoco lento onde ridurla tenera, per il che ci vorranno in tutto da 7 a 8 ore; se per caso il sugo vi venisse a mancare aiutatevi col brodo.

Quando sarete per servirla, datele maggior sapore col parmigiano e versatela sopra fette di pane arrostito che devono sguazzare nel sugo. Basterà per cinque persone.

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