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Pasta con la genovese: la ricetta scientifica spiegata in 5 punti

domenica, 06 Gennaio 2019 di

Il sugo alla genovese (‘a genovese) e uno straordinario condimento per la pasta.

Ecco la nostra nuova puntata della web serie La Ricetta Scientifica che vi permette di raggiungere il miglior risultato in cucina, a casa vostra, con 5 passaggi fondamentali.

La genovese, quella classica, abbisogna di un paio di righe di spiegazione: trattasi di sugo dalla consistenza cremosa di cipolle e carne che, grazie alla lunga cottura, acquisisce morbidezza e digeribilità.

Le origini? Incerte.

C’è chi assicura l’esistenza del cuoco che di cognome faceva Genovese, chi è pronto a farsi ammazzare assicurando dell’esistenza di un monzù di Ginevra (Genève, Genevois e quindi Genovese), chi racconta di trattori genovesi che avevano numerose trattorie in zona porto e che questi cucinassero la carne con le cipolle, nonostante nella cucina genovese non se ne abbiano tracce chiare.

È ricetta popolare, comunque, dalle origini antiche, con la possibilità, una volta era la normalità, di mangiare anche la carne come secondo piatto, servendo la pasta con il solo sugo delle cipolle ed alcuni pezzettini di carne, quelli che si sono sfaldati durante la cottura.

Pochi e semplicissimi gli ingredienti, tanta pazienza e cura nella preparazione.

Cinque regole, da seguire attentamente, per non rovinare un “lavoro” che porterà via tempo.

La pasta con il sugo alla genovese

Ingredienti (per 4 persone)

700 g di carne di manzo (in un solo pezzo o a cubi grossi di almeno 4/5 cm di lato)
1,3 kg di cipolla Ramata di Montoro
1 carota
1 costa di sedano
3 bicchieri di vino bianco
80 ml di olio extravergine di oliva
40 g di strutto
Sale e pepe qb
400 g di ziti spezzati a mano o (a scelta) rigatoni, maccheroni, mezzanelli, mezzi paccheri
80 g di pecorino romano grattugiato

1. La scelta della cipolla

L’elemento principe della ricetta, non credo serva specificarlo.

Tante le varietà, tre le macro categorie basate sul colore della tunica, la pelle esterna.

Bianca, pungente ma non fastidiosa a crudo, ideale per soffritti, buona anche dopo una lunga cottura (ad esempio la Bianca di Chioggia).

Rossa, più aromatica ma delicata, persistente anche una volta cotta (la calabrese Rossa di Tropea).

Dorata/Ramata, le più intense, ottime nei piatti che prevedono una lunga cottura. (tra le più celebri la Dorata Parmense, la dorata di Voghera e la Ramata di Montoro)

Beh, prove ne ho fatte diverse, e tra “nordiste” e “sudiste” si lascia preferire la Ramata di Montoro, dolce e delicata, non particolarmente fastidiosa nella preparazione, con gusto e consistenza perfette.

Mi raccontano meraviglie della cipolla di Vatolla (Salerno), dalla tunica esterna paglierino/rosa, molto dolce, di scarsissima pungenza, dal profumo delicato e poco penetrante.

Caratteristiche interessanti l’elevata digeribilità e l’assenza di lacrimazione nel prepararla.

2. Il taglio della cipolla

Ovvero “lacreme napulitane”, come scherzosamente viene definita la fase del taglio delle cipolle.

Eppure, ciò che accade è solo dovuto all’attivazione dei meccanismi “difensivi” della cipolla.

Alla stregua di un’arma letale, unica dell’intero genere allium, quando la tagliamo, danneggiando così le cellule, liberiamo un enzima chiamato allinasi che converte queste molecole solforate in acidi sulfenici.

Non ve la faccio difficile, e per le specifiche vi rimando ad un post, manco a dirlo, di Dario Bressanini, sappiate però che da lì a piangere è un attimo, dato che la molecola che si crea, che si chiama propantial-S-ossido (detta anche “fattore lacrimogeno”), è molto volatile e raggiunge i nostri occhi rapidamente.

Mi sento di darvi una sola indicazione vera, e pratica, ovvero avere un coltello affilatissimo.

Una lama liscia, ben affilata, permette un taglio netto sulla cipolla, limitando gli effetti, mentre i coltelli poco affilati, non consentendo un taglio netto, favoriscono lo sprigionarsi delle sostanze irritanti.

Non posso però negare che buoni risultati si ottengono anche bagnando con l’acqua il tagliere e la lama del coltello, in quanto grazie alla buona solubilità del fattore lacrimogeno riduciamo il numero di molecole irritanti che possono raggiungere la cornea.

Oppure che mettendo la cipolla nel freezer per 10/15 minuti si rallenta l’azione grazie al freddo.

Il limite di questi rimedi è che vanno bene per il taglio di 2/3 cipolle.

Insomma, per la genovese (parliamo quindi di almeno 10/15 cipolle o più) c’è davvero poco da fare, e vi prego di non ridere per quanto vi dirò.

La migliore soluzione è indossare gli occhialini da piscina, in quanto unico modo per ottenere che la cornea sia sicuramente protetta, così come (involontariamente) succederà a chi porta lenti a contatto.

In ogni caso molto dipenderà dalla varietà di cipolla, e soprattutto dalla vostra sensibilità, non esistendo una soglia oggettiva.

Insomma, può darsi che qualche lacrimuccia la verserete comunque.

Ricordatevi però, quasi come se fossero delle regole di base, di sbucciare sempre la cipolla con le mani senza aiutarsi tagliando le estremità con il coltello e, dopo averla divisa a metà, di orientarla in modo da tagliare partendo dall’apice per poi terminare con la zona vicina alla radice, quella che sprigiona più sostanze irritanti, tenendo sempre il più possibile lontano gli occhi dalla parte del taglio.

Non male la tecnica da me già testata, a patto di perdere qualcosina nel gusto finale, basata su una precottura in forno per 25/30’ a 150/160º. Le cipolle intere, appena distanziate sulla teglia, meglio se con la loro tunica.

Appena ammorbidite, le lasciamo raffreddare, le puliamo e poi le affettiamo come da ricetta.

3. La scelta della carne

Dovessimo dar retta ai “ricchi” di un tempo che fu, dovremmo utilizzare solo il girello di coscia (quello che in napoletano si chiama lacierto), che dovrebbe essere rigorosamente di annecchia (cioè una vitella d’età non superiore a un anno).
Insomma un pezzo che presenta caratteristiche di tenerezza intrinseche, visto che la poca grassezza di questo taglio di prima categoria lo fa preferire per arrosti e roast-beef.

Anche se la colarda (in italiano scamone, che anatomicamente divide il filetto dall’anca del bovino), taglio di prima categoria ricavato dal dorso finale del bovino, anch’esso taglio abbastanza magro, si presta benissimo anche a stufati e stracotti.

I più attenti però preferiscono il gammunciello (gamboncello, taglio che in italiano è possibile identificare con il geretto posteriore di manzo), taglio di terza categoria ottimo per bolliti e stufati.

Io però mi sono fatto ingolosire, usandolo qui, da un altro taglio “di seconda”, il reale (a Napoli chiamato corazza), ricavato dai muscoli delle prime 5 vertebre dorsali anteriori, abbastanza magra e che si presta bene per bolliti, stracotti e arrosti.

Ah, non dimenticate, in special modo nel caso di preparazione come seconda portata, il fusello di spalla, detto a Napoli lacertiello, molto simile al girello di coscia, proveniente però dalla parte anteriore dell’animale nonostante sia un taglio di seconda categoria. Potrebbe rivelarsi davvero sorprendente per cotture lunghe come queste.

4. La scelta della pasta

La scegliamo tra quelle trafilate in bronzo e con asciugatura lenta, chiaramente di Gragnano, la città della pasta IGP.

Qui ho usato gli ziti lunghi di Gragnano del pastificio Garofalo, dal buon rapporto qualità/prezzo.

Chiaramente da spezzare a mano (eventualmente predisponendo la pasta mediante una piccola incisione con un coltello seghettato), creando così quella minutaglia che resta sul fondo del piatto, da raccogliere con il sugo restante.

Avrei potuto usare le candele (che io preferisco con il ragù), ma anche rigatoni, maccheroni, mezzanelli o mezzi paccheri senza incorrere nelle ire di alcun purista.

Ah, mi raccomando, qualunque sia il formato scolatelo benissimo, ogni presenza d’acqua diluirebbe (e rovinerebbe irrimediabilmente) il sapore e l’effetto crema prodotto dalla lunga, paziente cottura.

5. La cottura perfetta

Prima di tutto cerchiamo di capire quale possa essere la pentola adatta.

In tempi neanche troppo lontani le nonne non avrebbero avuto dubbi, la scelta sarebbe ricaduta sul tegame di coccio (terracotta), con le bellissime (ed anche un po’ care) cocotte in ghisa oggi tanto in voga tra i gastrofighetti a raccoglierne l’eredità per le lunghe cotture.

Onestamente va più che bene una moderna casseruola dal fondo non troppo spesso (meglio se d’alluminio a mio parere) dotata di coperchio, in vetro o meno poco importa.

E, come vedremo, teniamo pronta anche una padella, meglio se non antiaderente.

È il momento di passare alla cottura, ovviamente la fase fondamentale, che non ammette deroghe, pena la cattiva riuscita del sugo.

Io però, da curioso ed “eretico” quale sono, qualche domanda me la sono posta.

La “tradizione”, quella cosa che secondo me non è detto cammini per forza a braccetto con il “ben fatto”, vuole una cottura un po’ “pasticciata”, caratterizzata dall’inserimento di tutti gli ingredienti in pentola nello stesso momento, a parer mio non proprio il massimo.

È infatti praticamente “moderna” la tecnica di cottura attualmente in voga che, lungi dall’essere perfetta, vuole una preventiva rosolatura della carne nel “grasso”, con successivo inserimento di sedano, carote e, dopo alcuni minuti, delle cipolle tagliate finemente aggiungendo un poco d’acqua e un po’ di sale.

La cottura proseguirà poi proprio come si fa con il ragù, coprendo e facendo cuocere a fuoco bassissimo mescolando di tanto in tanto.

Unica differenza il versare poi in un paio di riprese il vino, facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola.

Fermiamoci però un momento e riflettiamo.

Per il sugo alla genovese utilizziamo in sostanza la tecnica di cottura di un brasato, quindi con il liquido non a coprire, ma sufficiente a creare in pentola vapore ed un ambiente umido e, fondamentale passaggio, da aggiungere progressivamente (giusto per ricordare: brasati=poco liquido alla volta/spezzatini=tanto liquido in una sola volta). Insomma il “segreto” del brasato alla piemontese.

E se vogliamo costruire un po’ di sapore in più potremmo ipotizzare ed azzardare una prima fase di cottura in pentole separate, per poi unire solo in un secondo momento la carne con la piccola base sedano/carota e le tante cipolle.

Cerchiamo ora di capire se quanto ipotizzato possa avere fondamento, visto che così, in teoria, dovremmo riuscire ad avere più sapore, riducendo nel frattempo al minimo il rischio di bruciare le cipolle alla più piccola distrazione (cosa che, v’assicuro, succede).

 

Forse è il caso di rammentarvi che la reazione di Maillard (quella che crea le crosticine sulla carne o l’imbrunimento della cipolla) necessita di almeno 140ºC per “funzionare”, come racconta Dario Bressanini quando parla della fase iniziale del “suo” ragù alla bolognese:

Perché avvenga velocemente è necessario raggiungere temperature sufficientemente alte. Quando aggiungiamo la carne cruda al soffritto, se questo non è stato privato dell’acqua, abbiamo difficoltà a mantenere le alte temperature necessarie per sprigionare i sapori di carne. Sino a quando l’acqua non è evaporata infatti la temperatura rimarrà sotto i 100 °C. E se decidete di aumentare troppo il fuoco per far evaporare l’acqua che si forma, fuoriuscita dalla carne, se non state molto accorti rischiate di bruciare le cipolle del soffritto non appena l’acqua è evaporata.

Insomma, l’idea di una prima fase con le cotture separate va assolutamente sperimentata.

E lascio a successivi test “l’estremizzazione” del nostro guru che, in un post sulla cottura della cipolla, ne dimostra la velocizzazione del processo di imbrunimento (che per noi sarebbe molto interessante) grazie all’utilizzo del bicarbonato di sodio.

Non essendo indicate delle dosi esatte (l’esperimento tendeva solo a mostrare il fenomeno), lascio appunto a successive prove la determinazione dell’esatta quantità di bicarbonato di sodio da utilizzare, in quanto, se usato in basse dosi toglie anche pungenza ma, in dosi eccessive, rende sì rapidissima la reazione, conferendo però uno sgradevole retrogusto.

Ma una cosa non posso fare a meno di notarla, ovvero che il pH influenza molto la velocità con cui avviene la reazione di Maillard.

In ambiente acido (pH < 7) la reazione è rallentata mentre a pH basico (pH > 7) la reazione è velocizzata.

E visto che useremo il vino per la cottura, notoriamente acido (il pH del vino bianco è mediamente compreso tra 3 e 4) e utilizzeremo sostanzialmente la tecnica del brasato, da un lato ritarderemo l’imbrunimento della cipolla, dall’altro permetteremo alla carne di cuocersi correttamente.

Tagliamo quindi abbastanza finemente sedano e carota, e seguiamo le indicazioni della nostra ricetta del ragù scientifico al punto 3. La cottura – fase 1.

Quindi una padella ed una casseruola, due fuochi, e mettiamo a rosolare in olio e strutto sedano e carota alcuni minuti per poi aggiungere le cipolle tagliate precedentemente a fettine sottili.

Nel frattempo, chiaramente nella padella, anche senza condimenti, provvederemo a creare quella crosticina che ci aiuterà a “costruire” meglio il sapore.

Le cipolle le faremo sudare lungamente in pentola con il coperchio, salando (appena un po’) solo dopo 25/30 minuti.

Appena notiamo un minimo inbrunimento delle cipolle uniamo la carne precedentemente scottata, facciamo insaporire e dopo circa 10 minuti iniziamo ad aggiungere poco vino.

Copriamo e controlliamo ad intervalli regolari di 10/15 minuti, con il fuoco bassissimo.

Quando il poco liquido sarà esaurito la temperatura inizierà inesorabilmente a salire, cominciando a far attaccare sul fondo le cipolle.

Sarà il momento in cui, aiutandoci con un cucchiaio di legno, e cercando di non grattare, deglasseremo dolcemente con altro vino, ripetendo per almeno due ore questo processo.

Insomma facciamo “attaccare” e poi stacchiamo, creeremo così quel bel colore bruno all’intingolo finale.

Un piccolo punto d’attenzione: spesso si sente parlare di caramellizzazione della cipolla, confondendola con la reazione di Maillard.

Senza scendere troppo in particolari, sappiate che la cipolla è un vegetale molto ricco di zuccheri, nello specifico fruttosio, glucosio ed infine saccarosio.

Però sono le diverse temperature di decomposizione: per il saccarosio (quello che comunemente chiamiamo zucchero) l’imbrunimento e la formazione di composti aromatici e sapore caratteristico avvengono verso i 160ºC, temperatura ben più alta di quella richiesta per la reazione di Maillard. Invece il fruttosio comincia a decomporsi a 105ºC (per la cronaca il glucosio a 150ºC).

Ecco spiegato l’imbrunimento, che non sarà comunque mai pronunciato a meno di “indurlo”, come faremo noi nel caso della genovese, facendo consumare il liquido e reinserendolo un attimo prima che l’intingolo inizi a bruciare (siamo poco oltre i 105ºC, provate con un termometro).

Da segnalare poi che l’effetto della decomposizione dello zucchero lo conosciamo, ovvero più la caramellizzazione sarà spinta più scuro sarà il caramello, con il gusto man mano sempre più tendente all’amarognolo.

Quindi, quando i cibi dorano o bruniscono è per effetto della reazione di Maillard.

E quindi sarebbe più giusto parlare di “maillardizzazione”.

Ma torniamo a noi.

Quando il sugo sarà pronto, ovvero dopo circa tre ore complessive di lavoro, scoleremo bene la pasta e, usando una zuppiera abbastanza capiente, condiremo prima con qualche cucchiaiata di sugo che aggiungeremo poi anche sulle singole porzioni impiattate. Completeremo con pepe di mulinello e pecorino grattugiato al momento.

Buon Appetito!

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