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Eravamo tanto strani. Gianfranco Vissani (anni ’80)

venerdì, 26 Novembre 2010 di

Immaginate di avere diciotto anni e una passione. E’ facile: a diciotto anni quasi chiunque ha una passione. Se non ce l’hai vuol dire semplicemente che sei già morto. Può essere la musica, o lo sport, o rimorchiare, fate un po’ voi. Talvolta i libri, i fumetti o il cinema. Le droghe, ma quella è una china pericolosa. La politica aveva appena schiantato i nostri fratelli maggiori, e ormai, per lo meno in provincia, alla fine degli anni ottanta si parlava solo di made in Italy, di moda e di sfilate, e, come sempre in provincia, di macchinoni superaccessoriati e feste in discoteca.

Noi eravamo strani: per noi la passione erano il vino e la cucina.

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Un nucleo variabile di quattro\otto ragazzi, tra i venticinque e i miei diciotto anni, disposti a macinare centinaia di chilometri, a volte migliaia, e a spendere tutti i soldi di una vacanza per mangiare in pochi, grandi ristoranti, e poi magari dormire in auto.

Per qualcuno di noi il cibo era una tradizione familiare irrinunciabile, il punto di partenza per poi andare per la propria strada. Per qualcun altro una vera e propria scoperta, dal nulla dei sofficini e dei brodi di dado a un universo fantastico che andava delineandosi in quel momento. E che non era ancora chiaro a molti. C’era stata la nouvelle cuisine, e ora se ne stava uscendo per approdare verso qualcosa di nuovo…

Con l’entusiasmo con cui pochi anni prima avremmo fatto a cambio con le figurine dei calciatori o di Barbie, adesso guide alla mano, ci scambiavamo i racconti sulle cucine in cui eravamo entrati, su ciò che avevamo assaggiato, e le tecniche di cottura che avremmo tentato di riprodurre con i nostri fornelli da studenti universitari, utilizzando i ricettari vecchi e nuovi che all’improvviso si erano riversati sugli scaffali delle librerie, (Artusi, Escoffier, Paracucchi, Bocuse). Sulle bottiglie stappate, e le etichette che alcuni conservavano gelosamente. Sui cuochi. Quelli che avevano cominciato da poco e quelli già affermati. Primo fra tutti Gianfranco Vissani.

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Immaginate un lago artificiale dove si fa pesca sportiva a monte o a valle della diga. Un posto qualsiasi, insignificante rispetto ai dintorni, Orvieto, Todi, dove ogni giorno si riversano migliaia di persone a vedere duomi e cattedrali e ingozzarsi d’improbabili (per più ragioni) bruschette al tartufo.

Immaginate un ristorante di famiglia meta di un pubblico stanziale, dove di punto in bianco in una parte, il figlio del proprietario mette su un locale autonomo, fa una cucina completamente nuova e rivoluzionaria…

All’improvviso, quello era diventato il posto in cui dovevamo assolutamente andare, e non si parlava d’altro.

Se, come penso, Gianfranco non è cambiato molto in questi anni, la sua risposta sarebbe: ma vuoi scherzare? Altro che all’improvviso o di punto in bianco. Lì si lavorava da anni. Mica che lui era uno di quei ragazzini che mollavano l’università a metà per inventarsi ristoratori! E probabilmente mi manderebbe a morire ammazzata… Tutto vero. Così come alcuni di quegli improvvisati (o illuminati), hanno fatto la storia della cucina qui e altrove, con buona pace di Vissani.

Ma la sostanza del discorso resta quella. Come un fulmine a ciel sereno, in un panorama gastronomico per lo più fermo al pleistocene, o che, a parte alcune eccezioni, ancora si dibatteva nelle pastoie della nouvelle cuisine (e che avrebbe continuato a farlo per un bel po’), era apparso un vero e proprio gigante, in tutti i sensi. Come Minerva, dalla testa di Giove, come credo si espresse all’epoca Henri Gault.

Lasciata l’automobile nel parcheggio anonimo del Padrino, l’onesto ristorante della famiglia, che si diceva essere pure buono (ma che non ci veniva nemmeno in mente di provare, noi avevamo una meta precisa!), varcata la soglia e attraversata la sala per banchetti, si passava al Vissani. Non so più se si girasse dietro a una grande scaffalatura, o se la porta imbottita fosse già apparsa, ma a ogni modo, questo era un altro mondo…

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Tovaglie di lino fino a terra, porcellane, cristalli: tutto era da grande ristorante, solo che eravamo a Baschi, non a Parigi! Una cattedrale nel deserto, e la cosa mi faceva un grande effetto. E la dice anche lunga su quanto poco ancora avessi ancora girato. Più o meno nello stesso periodo Fredy Girardet stava in una specie di casermone industriale alla periferia di Losanna, e non certo affacciato sul lago. E, posso testimoniare, anche lì si stava da Dio, esattamente come a Baschi.

Prodotti allora introvabili da altre parti. Il primo blue mountain della mia vita, il caffè jamaicano dai grandi chicchi aromatici, il formaggio di cammella mai più o quasi assaggiato, (nel ricordo una specie di parmigiano arancione molto sapido e lungo), se non anni dopo allo zio d’America, altra creatura di Vissani, purtroppo durata non abbastanza, un grande magazzino del gusto con annesso ristorante in anni in cui si parlava di Fauchon e Harrods con reverenza. La carne di Kobe, che se sapevo che roba fosse, era solo perché ne avevo letto in un libro di 007 forse a dieci anni, e, a dimostrare che qualsiasi libro prima o poi può rivelarsi utile, anche Jan Fleming, anche Angelica Marchesa degli angeli, chiaramente ero in grado di spiegare a tutti fino allo sfinimento come diavolo si facesse, dei pastoni e dei massaggi con la birra fatti agli animali.

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Una cantina importante, per accedere alla quale dovevamo impegnare tutte le nostre risorse, e soprattutto tenere a freno un paio di amici che ci avrebbero costretto al ruolo di lavapiatti per l’eternità per saldare il debito, pur di stappare quelle due o tre bottiglie giuste.

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Menù chilometrici e piatti dai titoli interminabili in cui però ogni singolo elemento aveva una sua precisa ragione d’essere, come Vissani avrebbe dimostrato anni dopo a un critico che si lamentava della sovrabbondanza di parole, tappandogli la bocca con un semplice “Pasta al pomodoro”, in cui c’era tutto il mondo, il suo mondo, ovvio. Come nei ravioli al tartufo, sfoglia sottilissima ad avvolgere tartufi interi e foie gras, come nella minestra di lenticchie, nel pré-salé. Sapori netti e precisi nella loro poesia, anni luce lontani da quasi chiunque altro, a partire dal pane. I mitici grissini e tutti gli altri: “il signor Vissani è aduso abbinare a ogni piatto un pane diverso”, ci informava un ragazzetto tremebondo, uno dei molti che andavano a imparare il mestiere, perché lì c’era davvero un mestiere da imparare.

Ci sedevamo certi di fare un’esperienza, accompagnati nel percorso da Gianfranco, figura a volte benevola, a volte vagamente minacciosa data anche la mole, capace a seconda di come gli girava, di strapazzare una neo magistrato perché aveva osato comparare la sua cucina a quella de le Cirque, pensando di fargli un complimento, o di tirare giù dal letto a notte fonda un povero aiuto cuoco perché suonasse il “supercoda” (come lo chiamavamo), apparso a un certo punto tra foreste di rose alte due metri, nella marcia inesorabile per l’accaparramento dello spazio vitale e la progressiva cancellazione del Padrino.

La verità è molto semplice. Ci divertivamo un sacco: ecco la verità!

Foto: wlaciccia.it