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Olmi a Repubblica: “Distruggono la cultura popolare e la casa comune”

giovedì, 28 Aprile 2011 di

“Pensi alla meraviglia dei sapori: possiedo almeno dodici qualità d’olio, dal più delicato che viene da Bassano, dove c’è l’olivo più a nord d’Europa, fino all’olio siciliano di qualità robusta. Che cosa potevo chiedere di più al luogo dove sono nato? Questi non lo capiscono e vogliono distruggere la casa comune. Mi fanno pena”. (Ermanno Olmi, intervista a Repubblica).

Buongiorno! La sveglia ha suonato alla solita ora e oramai da un po’ di tempo il mio primo gesto è prendere dal comodino il lettore e sfogliare il giornale. Sono saltato sul letto: una pagina con una lunga intervista a Ermanno Olmi. Se non l’avete ancora fatto correte a leggerla, è tra le cose più importanti che ho letto in questi anni. Ci riguarda tutti, come Italiani e anche come gastronomi. Ma davvero abbiamo perso la cultura popolare? Abbiamo fallito nel formare il cittadino? Stiamo svendendo il paesaggio italiano a favore di un’idea televisiva di benessere? Queste e molte altre le domande che ci gira il saggio di Asiago alle soglie degli Ottant’anni. Oramai Olmi assomiglia sempre più al nonno di Heidi, gli manca solo la barba bianca. Ma quello che dice e come lo dice ci consegna un questito abbacinante.

Anche la querelle di questi giorni della nostra piccola società gastronomica su la 50Best (di cui abbiamo detto già tutto lo scorso anno) sembra inserirsi in questa tensione. Sembra dirci: il clamore conta più della sostanza. La domanda che mi assale a questo punto, leggendo le parole di molti su Inaki Aizparte alla luce delle dichiarazioni odierne di Olmi, ma se è vero (e noi pensiamo che lo sia) che lo Chateaubriand ha rivoluzionato un approccio alla cucina, rendendolo più democratico e restituendolo alla sua funzione popolare, allora perché in quella lista non c’è traccia di quei locali che stanno facendo lo stesso in Italia? Perché la nostra critica li prende sottogamba?

Penso a quanto sta facendo Arcangelo sulla cucina romanesca, con i suoi piatti colti e popolari, o al lavoro di interpretazione della tradizione di tanti indirizzi di provincia. Insomma mi sorge il dubbio che il pensiero unico di una ristorazione sempre più alta e apollinea, di una cucina lontana dal sentire popolare, rischi di distruggere la casa comune della cucina italiana. Perché in fondo chi opera così nel nostro paese, con sostanza e piacevolezza, senza servizi faraonici, senza orpelli e piatti di ceramisti tedeschi, senza sommellier strambi e pinguini impettiti, venga naturalmente pensato di serie B…

Foto: 100vino.it