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Pecorino rumeno e culatello Usa. E il made in Italy che non c’è più

sabato, 04 Febbraio 2012 di

Lo scaffale del Made in Italy che non c’è più. E’ la provocazione lanciata da Coldiretti alla Fiera Agricola di Verona in corso in questi giorni. Quasi una bottiglia gettata nell’oceano per una richiesta d’aiuto finora inascoltata.

Proviamo a ricostruire il (mis)fatto. Scena del delitto l’Italia, paese senza acciaio ma con uno straordinario serbatoio di sapori e risorse gastronomiche. Che però da anni perde pezzi importanti del suo agroalimentare senza battere ciglio e da qualche tempo si è messa pure a fare concorrenza a se stessa.

Ecco la ricostruzione che ne ha fatto il Presidente di Coldiretti Sergio Marini, intervenuto alla Fiera Agricola di Verona: “Nello spazio di dodici mesi sono stati ceduti all’estero tre pezzi importanti del made in Italy alimentare”. Una storia di insuccessi iniziata, spiega Marini “con l’importare materie prime dall’estero per produrre prodotti tricolori” per poi passare “ad acquisire direttamente marchi storici. Il prossimo passo rischia di essere la chiusura degli stabilimenti italiani per trasferirli all’estero”.

Una catena di defezioni dove l’ultimo anello perso è la Ar Pelati, finita qualche giorno fa nell’orbita della giapponese Mitsubishi.

Complice la globalizzazione economica e la crisi che ha abbassato il valore delle aziende italiane, sono tante le imprese che hanno cambiato bandiera. Andando a ritroso nel tempo gli altri anelli perduti sono Gancia, acquistata dalla russa Russki Standard e Parmalat, finita sotto il controllo di Lactalis. Nel 2006 era toccato a Carapelli ma da tempo avevano preso il volo anche Locatelli, le Fattorie Scaldasole, Peroni, San Pellegrino, Antica Gelateria del Corso, Buitoni e Perugina.

Lo shopping di imprese italiane sullo scacchiere globale non è l’unico colpo al Made in Italy. Un conclamato esempio di masochismo all’italiana è il caso Simest, società controllata (e finanziata) dal Governo italiano e partecipata da Eni, Unicredit e San Paolo, con lo scopo di favorire l’internazionalizzazione delle imprese agroalimentari. Che però, internazionalizzando internazionalizzando, si è messa a finanziare produzioni che del Made in Italy hanno soltanto il nome. Come il Pecorino fatto con latte rumeno. O il salame “calabrese” prodotto negli Usa, il culatello statunitense a marchio Salumeria Biellese, o la bresaola uruguaiana prodotta da Parmacotto, azienda di punta dell’agroalimentare italiano e nella quale Simest, che ne possiede una quota azionaria, ha appena investito 11 milioni di euro.

Del caso Simest, già noto da tempo alle cronache, si parla nella prima relazione sulla contraffazione e pirateria nell’agroalimentare elaborata dall’apposita Commissione Parlamentare d’inchiesta. Che così recita: “La produzione di Pecorino e caciotta in Romania come la vendita all’estero di salame calabrese fatto negli Stati Uniti sono state finanziate con le tasse degli italiani senza alcun beneficio per il Paese ma facendo anzi concorrenza sleale a tutte le produzioni tipiche espressione vere del territorio’. Prodotti che, come spiega Coldiretti, “nascono all’estero, con materia prima e manodopera estere. E’ il caso dell’azienda casearia Lactitalia, partecipata da Simest al 29,5 per cento che produce in Romania formaggi con nomi italiani ‘Caciotta’ e Pecorino”. E’ il caso anche “del salame calabrese prodotto negli Stati Uniti e venduto a New York dalla salumeria Rosi del Gruppo Parmacotto”.

Un caso lampante di Italian sounding (complice anche il divieto di esportare in America salumi freschi) il cui giro d’affari supera ormai i 60 miliardi di euro l’anno. Una cifra che sarebbe largamente sufficiente a sanare il deficit negli scambi con l’estero nel settore agroalimentare. “Per giungere ad un pareggio della bilancia commerciale dell’agroalimentare italiano”, si legge nella Relazione della Commissione parlamentare, “sarebbe sufficiente recuperare quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari dell’italian sounding”.

Per il neo ministro delle Politiche Agricole Mario Catania è l’ennesimo dossier complicato che atterra sulla sua scrivania. E non poteva essere altrimenti in un paese con l’arretrato di riforme più vistoso del mondo occidentale. Di positivo c’è però che il tema il ministro lo conosce sicuramente bene visto che alla poltrona di via XX Settembre è arrivato  dopo una lunga collaborazione con il ministero. Di positivo c’è anche che, sentito sulla questione, ha dichiarato: “Sono d’accordo sul fatto che vada rimessa mano alla questione Simest e ho già posto il problema al ministro Passera. Non si può contribuire col denaro dei cittadini a investimenti all’estero che danneggiano i produttori italiani”.

[Fonte: coldiretti.it, helpconsumatori.it, agroalimentarenews.com Foto: viniesapori.it, shopsandthecity.blogosfere.it]