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Gastrosfigati e gastrofighetti. I neologismi che uccidono il mondo del cibo e del vino

domenica, 09 Gennaio 2011 di

Quando esce in campo una dizione nuova, strana, la qual non pretenda se non fare il medesimo uffizio che già è fatto da un’altra, convien ributtarla, soffocarla, non lasciarla allignare, se si può […] Poiché ella viene a mettere in forse il certo, a intorbidare il chiaro, a render difficile ciò che non era, a metter contrasto dov’era consenso… (Alessandro Manzoni)

Bruegel-torre-di-babele

Gastrofichetti, gastromaniaci, gastronzi, gastroentusiasti, gastrotradizionali, enomaniaci, enosboroni, gastronauti, enoemozioni, enodemocratici, gastrolibertari… Si potrebbe andare avanti per ore e ore, con i neologismi inventati per il nostro piccolo mondo.

Un ghetto nel quale ci rinchiudiamo da soli con il vezzoso piacere di sentirci diversi. In realtà per il novantanove per cento dell’umanità, sono tutti uguali. Errori di grammatica che non significano niente e che indicano dei fenomeni da CIM (centro di igiene mentale), NOI!

Insomma: mumble mumble, pensa che ti ripensa, oggi ho avuto una illuminazione. Questi epiteti che ci piacciono tanto sono la dimostrazione della fragilità contemporanea della società gastronomica. Sono la prova (ammesso ce ne fosse bisogno) di quanto siamo residuali e marginali e di come veniamo percepiti: gastromaniaci, appunto, come ha detto Carlo Gallucci a Tg5 e come ha scritto la pulzella di montenapo, Ilaria Bellantoni, nel suo libello. No non si è sbagliato, voleva proprio dire gastromaniaci e non gastrofanatici, tantomeno il simpatico gastrofichetti, come qualcuno ottimisticamente ha suggerito.

Ma-nia-ci, come quelli con l’impermeabile ai giardinetti, come quelli che sordidamente entrano in certi cinemini equivoci, come quelli che non possono camminare senza seguire un percorso definito, che non possono uscire di casa senza aver controllato millanta volte di aver chiuso il gas. Maniaci appunto, una situazione di disagio e di malattia che contiene al suo interno un giudizio morale preciso e definitivo.

Quel giudizio morale, non lusinghiero, è per noi. Per tutti noi che pensiamo cose semplici e sostanzialmente corrette: che quello che mangiamo è importante, che (senza scomodare Feuerebach) siamo quel che mangiamo, soprattutto che il cibo è cultura e sapere. Questo assunto nel belpaese dovrebbe essere semplice, chiaro e limpido. L’enogastronomico è la sola voce rimasta sana (non so per quanto) del famigerato Made in Italy. La sola ancora in attivo e che potrebbe veicolare non poco del Turismo di questo paese.

Insomma il cibo è una cosa serissima, un insieme di culture e di saperi che sono la vera ricchezza di questo paese. Pensate solamente quanto hanno fatto in questo campo i cugini transalpini, a quanta cura e attenzione hanno profuso nel cibo e nel vino e a quale ricchezza ne hanno tratto. Ma invece noi? Noi siamo maniaci, buoni da rinchiudere e da sbeffeggiare.

Le parole sono importanti, diceva un signore barbuto, sono talmente importanti da contenere in se un giudizio ed in alcuni casi da veicolare una sentenza. Pensiamoci ogni volta che usiamo uno di questo simpatici neologismi, ogni volta che autonomamente ci rinchiudiamo in un ghetto e lasciamo spazio all’insinuarsi del dubbio.

Pensiamo a come colmare il gap che segniamo ogni volta. A come diventare interlocutori credibili in un mondo in cui il nostro settore, il nostro sport è importantissimo per tutti. A come essere referenti reali e non solo dei simpati eccentrici nella migliore delle ipotesi…