Jeong Kwan, chi è la monaca buddista che incanta le papille

Preparatevi a resettare le vostre coordinate gastronomiche, a mettere in discussione certezze che credevate incrollabili. Dimenticate, per un istante, la corsa alle stelle, i menu degustazione da capogiro tecnico e le cucine urlate che tanto vanno di moda. C’è un’altra dimensione, un universo di sapore e sapere che sussurra con la potenza di un terremoto interiore. È il mondo di Jeong Kwan Seunim. La monaca buddista coreana che, senza mai aver gestito un ristorante né cercato i riflettori, è diventata una icona globale, una rockstar della cucina dell’anima.
E quando questo ciclone di serena saggezza è approdata a Roma, nell’ambito dell’Anno dello Scambio Culturale Italia-Corea, per un evento che profuma di fermenti millenari e di una modernità che ti spiazza, beh, Scatti di Gusto non poteva che fiondarsi in prima linea.
Pronti a un’esperienza che scuote le fondamenta? Allacciate le cinture (dell’anima, s’intende), perché questa non è solo una storia di cibo. È una lezione di vita.
La Città Eterna è diventata il crocevia pulsante di un incontro tanto improbabile quanto necessario. Da un lato, la calma ieratica, quasi soprannaturale, di Jeong Kwan. Dall’altro, l’entusiasmo vulcanico, contagioso, di Fabrizio Ferrari. Chef nostrano che all’Hansik (la cucina tradizionale coreana, per chi ancora non lo sapesse) ha votato passione e studio viscerale.
Un evento di tale portata non poteva che vedere il plauso delle istituzioni. E infatti, a sottolineare la solennità del momento, ha portato i suoi saluti anche l’Ambasciatore della Repubblica di Corea del Sud. Che con parole sentite ha ricordato come proprio attraverso “i sapori tradizionali coreani della cultura della fermentazione” si possa ulteriormente rinsaldare – e perché no, far letteralmente esplodere di gusto – il legame tra i due Paesi.
Il contesto: un santuario della storia gastronomica italiana per un dialogo inedito

Teatro di questo “dialogo a due voci”, culminato in una cena di gala che, ve lo diciamo subito, entrerà negli annali, è stato il Garum – Biblioteca e Museo della Cucina Italiana. E che teatro! Non una location qualunque, ma un vero e proprio scrigno di tesori. Un santuario laico del gusto, incastonato in un antico palazzo che profuma di storia a due passi – ma proprio due! – dal Circo Massimo (Via dei Cerchi, 87, segnatevelo, che merita una visita!).
Fondato dall’arguto chef e collezionista Rossano Boscolo, il Garum è un luogo dove la storia della gastronomia italiana è conservata, respira, vive, ti parla. Immaginatevi avvolti da oltre 3.000 volumi originali. Roba da far tremare i polsi. Si va dal Platina del 1570 alle prime, introvabili edizioni dello Scappi e dell’Artusi. E poi una miriade di strumenti d’epoca che sembrano sussurrare antiche ricette. Sorbettiere seicentesche, tortiere ottocentesche che hanno visto più dolci di quanti ne possiate sognare. Persino il primo gioco di cucina per bambini del 1898 e i menu originali dell’ultima, tragica cena del Titanic. Un edificio che trasuda storia da ogni mattone, un tempo monastero dei Padri Olivetani, sorto sulle fondamenta millenarie della Basilica di Santa Anastasia del IV secolo d.C.

Quale luogo più denso di significato, quasi predestinato, per ospitare un incontro che ridefinisce i contorni dell’avanguardia, ancorandola a radici che affondano nella notte dei tempi? Un “nuovo spartito da suonare”, dove la fermentazione – tema centrale e potentissimo della serata – ha fatto da ponte vibrante tra la millenaria sapienza coreana e l’estro italico. Il tutto sotto gli occhi (immaginari, ma non troppo) di secoli di storia culinaria italiana. Una “passeggiata nel passato della gastronomia” che, per una sera indimenticabile, si è spalancata a un futuro di contaminazioni che sanno di rivoluzione gentile.
Chi è Jeong Kwan Seunim: la “non chef” che ha folgorato il mondo

Ma chi è, veramente, Jeong Kwan? Se glielo chiedete, vi spiazzerà con un sorriso che è insieme disarmante e profondissimo: “Non sono una chef, sono una monaca”. Boom. Niente ristoranti stellati nel curriculum, niente brigate urlanti, niente ego strabordante che tanto spesso appesantisce il mondo del fine dining.
La sua “cucina” (parola che lei stessa usa con cautela, quasi a sottolinearne un significato altro) nasce e vive, come un fiore raro, tra le mura dell’Eremo di Chunjinam, nel tempio di Baegyangsa, Corea del Sud.
Un orto baciato dal sole e sferzato dal vento è la sua unica, vera dispensa, dove la natura è sovrana e lo spreco è bestemmia. La sua è una “pratica spirituale”, un modo potentissimo per “comunicare con il mondo tramite il cibo templare buddista”. Lo dice con una semplicità che ti arriva dritta al cuore.
Dopo la perdita della madre, ha cercato un cammino che placasse il dolore della separazione. Trovando nella vita monastica e nella cura quotidiana del cibo una forma di meditazione attiva, una via per una profonda e continua connessione con l’universo.
Molti l’hanno “scoperta” grazie alla serie Netflix “Chef’s Table”, che ha svelato al grande pubblico il suo approccio spirituale, privo di ego, alla cucina. Una vera e propria boccata d’aria fresca.
Sachal Eumsik: la filosofia nel piatto o, meglio, nella ciotola dell’universo

La cucina templare coreana, o Sachal Eumsik, è molto più di un insieme di ricette. È un codice millenario, una vera e propria “arte del vivere” che si fa cibo, nutrimento per il corpo e, soprattutto, per lo spirito.
I suoi pilastri? Roba forte: armonia con la natura (quella vera, non quella da spot pubblicitario), stagionalità assoluta e senza compromessi, consapevolezza in ogni singolo gesto – dalla semina alla raccolta, dalla preparazione alla condivisione – e, come un mantra, zero sprechi.
E poi c’è il “grande divieto”, quello che fa la differenza. L’esclusione categorica degli osinchae. Segnateveli: aglio, porri, scalogno, erba cipollina coreana e assafetida – i cinque vegetali considerati “pungenti” che, secondo la tradizione buddista, disturbano la quiete meditativa, surriscaldando corpo e spirito.
Una rinuncia che potrebbe sembrare una castrazione del sapore e che invece, udite udite, si trasforma in una potentissima esaltazione, nella ricerca di sapori puri, cristallini, quasi primordiali. Un’assenza che diventa presenza vibrante, che ti affina i sensi e ti apre a un nuovo mondo gustativo. Incredibile, vero?
La dispensa della pazienza: Jang, Namul e l’umami che sussurra nei secoli

Immaginate una dispensa dove il tempo non è un nemico da combattere, ma l’ingrediente più prezioso del maestro alchimista. Ecco, quella del tempio di Jeong Kwan è esattamente così. I jang – salse fermentate celestiali come il ganjang (salsa di soia, ma scordatevi quelle industriali!) e il doenjang (pasta di soia, una bomba di sapore) – sono il cuore pulsante. Veri e propri elisir di sapore che maturano per anni, a volte decenni, custodi di un umami che non aggredisce, ma accarezza il palato con la profondità di un racconto antico. “Anni vanno nelle fermentazioni,” ci ricorda la nostra illuminata guida.
E il kimchi? Ah, il kimchi! Una sinfonia di verdure che danzano una lenta fermentazione, senza fretta, senza trucco e senza inganno, sprigionando una complessità aromatica che vi farà esclamare: “Ma allora è questo il vero kimchi!”.
Accanto a questi monumenti di pazienza e sapore, i namul, erbe di montagna e verdure selvatiche o coltivate con amore quasi filiale, trasformate con sapienza in contorni che sono pura poesia della stagione. E i funghi, come i mitici shiitake che Jeong Kwan rende – e chi li ha assaggiati giura che è vero – “meglio della carne”. Testimoni silenziosi di come la vera ricchezza possa nascere dalla più disarmante semplicità. È la vittoria del “cibo lento” per eccellenza, dell’essiccazione paziente che concentra l’essenza più pura – come quella, leggendaria, che dura un anno intero per le verdure del suo bibimbap del tempio – del bitda, quel “modellare” il cibo con le mani che è un atto di creazione, quasi un rituale d’amore.
Il ponte in cucina tra Corea del Sud e Italia

Ma attenzione a chiudere queste due tradizioni in compartimenti stagni. Ascoltando Jeong Kwan e assaggiando i piatti non si può fare a meno di cogliere sorprendenti “assonanze” con il DNA della nostra tradizione italica. Quel rispetto quasi sacrale per l’ingrediente di stagione, colto nel suo momento di grazia, non vi fa venire in mente la filosofia contadina alla base della nostra migliore cucina regionale? Quella che con due zucchine e un filo d’olio sapeva creare un capolavoro di gusto. E la fermentazione non è forse un’arte antica che anche noi pratichiamo da secoli? Dal pane con lievito madre ai grandi formaggi che raccontano pascoli e stagioni, dai salumi fino al vino stesso, nettare fermentato per eccellenza.
Certo, tecniche e profili di sapore divergono, a volte anche parecchio, ma la mano che guida sembra spesso mossa dalla stessa identica urgenza. Valorizzare al massimo ciò che la terra offre con una pazienza che sa di antico.
La centralità dei cereali – riso di là, grano di qua – come tela bianca per dipingere con i condimenti.
La convivialità del pasto (seppur vissuta con accenti diversi, più meditativi nel tempio, più caciarona da noi), e quella capacità tutta speciale di trarre una complessità sbalorditiva dalla più francescana semplicità.

Forse, quel “ponte culinario tra Italia e Corea” che lo chef Fabrizio Ferrari si propone di costruire poggia su fondamenta ben più antiche di quanto si possa immaginare. E chissà che l’Hansik, con la sua enfasi quasi ossessiva su sostenibilità, equilibrio e benessere, non possa davvero, “essere amato follemente dagli italiani” e dare vita a “nuove, esaltanti ricette di condivisione”.

E veniamo al cuore pulsante di questa esperienza romana: la cena di gala. Un momento in cui la filosofia commestibile di Jeong Kwan ha danzato con l’estro creativo di Fabrizio Ferrari, sul palcoscenico del Garum.
Bugak, Juk, Jangaggi, Kimchi

Si parte, e si parte subito forte, ma con un’eleganza da manuale: il Bugak e immaginate delle chips celestiali. Qui parliamo di sfoglie leggerissime, quasi impalpabili, di alghe, radici di loto e la loro terrena nota croccante. Una croccantezza da svenimento che incontra il sussurro marino dell’alga e la dolcezza quasi mistica del loto.
Ad accompagnare queste prime tentazioni, in un sorprendente abbinamento con le proposte vinicole di Feudi San Gregorio, un vino particolare, delicatamente profumato ai fiori di loto, che ha preparato il palato al viaggio. Un preludio che non stuzzica, ma accende la curiosità.

A seguire, il trittico che ti catapulta senza passaporto nel cuore della Corea più autentica e spirituale: Juk, Jangaggi e Kimchi.
Il Juk è un porridge di sesamo nero che è una vera e propria carezza per l’anima: vellutato, denso al punto giusto, con quel sapore tostato, profondo, che a tratti può ricordare la fluidità avvolgente di una finissima salsa tahina o la ricchezza di un burro di frutta secca, avvolgendo il palato in un abbraccio caldo e confortante.
I Jangaggi, invece, sono il contraltare: verdure sottoaceto che sono piccole bombe di sapore, un concentrato di sapidità vibrante e acidità che sveglia le papille come una doccia fredda in una mattina d’estate, pulendo la bocca e preparandola al prossimo incontro.
E il Kimchi di foglia di senape della monaca Jeong Kwan? Beh, qui siamo nell’Olimpo della fermentazione. Un piccolo, umile capolavoro: la piccantezza della senape è presente, viva, ma ingentilita, mai brutale; la foglia, incredibilmente, mantiene una sua integrità croccante e sorprendente; il tutto è pervaso da quella complessità aromatica, da quel funk elegante che solo una fermentazione lenta, curata con amore maniacale, sa donare. Niente eccessi, solo un equilibrio che rasenta la perfezione e una profondità che ti fa riflettere.
Tteok-anella

Ed ecco la risposta tricolore-coreana dello chef Fabrizio Ferrari: la Tteok-anella. Una panzanella, direte voi? Sì, ma il protagonista assoluto è il tteok, i mitici gnocchi di riso coreani, dalla consistenza gommosa, callosa al punto giusto, quasi una sfida giocosa per le mandibole, che si tuffano e si amalgamano alla perfezione con la freschezza mediterranea di pomodori succosi, cetrioli croccanti e cipolla dolce. Il tutto nobilitato da un polpo confit che è pura poesia: tenerissimo, saporito, si scioglie letteralmente in bocca lasciando una scia di mare. Un piatto che è un sorriso, un abbraccio travolgente tra due tradizioni che qui, miracolosamente, sembrano nate per incontrarsi. Fresco, divertente.
Il Pyogo Brasato da lacrime (di gioia) di Jeong Kwan

Arriva sua maestà, il Pyogo brasato, il piatto-simbolo della cucina di Jeong Kwan. E qui, amici, cala il silenzio. Funghi pyogo (shiitake di qualità eccelsa) cotti dolcemente, anzi, accarezzati dal calore, brasati in uno sciroppo di riso che è pura alchimia.
Al naso, un profumo che ti trasporta: intenso, profondamente terroso, quasi di bosco umido dopo un acquazzone estivo, con una nota dolce e sottilmente caramellata che intriga e seduce. In bocca, è un’esplosione di umami purissimo, una carezza vellutata che ti riempie il palato e lo spirito. La consistenza dei funghi è incredibile: carnosa e meravigliosamente fondente, assorbe magnificamente quello sciroppo che non è mai stucchevole, ma agisce come un amplificatore sublime della naturale sapidità del fungo. È un piatto che parla il linguaggio universale della pazienza, della trasformazione lenta, di come un ingrediente apparentemente umile possa elevarsi a vette di regalità assoluta. Ogni singolo boccone è una lezione di vita, una meditazione gustativa. Pura commozione.
Deulghirum spaghetti e Samhab per Fabrizio Ferrari

Ferrari non si lascia intimidire e torna alla carica con due piatti che sono una dichiarazione di intenti, un manifesto di come si possa dialogare tra culture con intelligenza e golosità. I Deulghirum spaghetti sono un vero e proprio viaggio intercontinentale in una forchettata: spaghetti (cottura da manuale, al dente) avvolti, anzi, laccati da un condimento che è una bomba aromatica. Olio di semi di perilla, dal caratteristico e potente aroma che spazia dal nocciolato a sentori quasi mentolati, e ganjang, la salsa di soia coreana che qui aggiunge profondità sapida, quasi un abisso di umami. A chiudere il cerchio, la bottarga, che con la sua spinta salina, iodata, potentemente marina, crea un cortocircuito gustativo pazzesco, da far girare la testa! Un consiglio spassionato, come suggerito con un sorriso sornione in sala: mischiate bene, anzi, benissimo prima di assaggiare, per domare e amalgamare la potenza aromatica dell’olio di perilla! Fidatevi.

Poi, il Samhab: e qui l’audacia si fa arte. Un trittico che è quasi una sfida alle convenzioni, combinando la delicatezza della razza, il gusto fermentato e pungente del kimchi e la ricchezza opulenta, quasi sfrontata, della pancetta. Un piatto che è un funambolo in equilibrio perfetto sui contrasti, sulla forza quasi primordiale dei singoli elementi che, insieme, creano un’armonia inaspettata, quasi spericolata. La razza, un sospiro di mare; il kimchi, una sferzata di pura vitalità; la pancetta, la nota grassa e golosa che lega il tutto con autorevolezza. Per palati coraggiosi, avventurosi e decisamente curiosi. Un brivido che corre lungo la schiena.
Baru Gongyang, il pasto tradizionale del tempio dove vive Jeong Kwan

E poi, di nuovo, un cambio di passo, un respiro profondo. Arriva il Baru Gongyang, il pasto tradizionale del tempio, e con esso un’aura di sacralità palpabile, un silenzio denso di rispetto.
Viene servito, come da tradizione, in semplici, bellissime ciotole di legno (baru). Consiste in riso al vapore – la base neutra, la tela del pittore – una zuppa che è un concentrato di conforto liquido, e sei diversi banchan (contorni). Altrettante piccole gemme preziose direttamente dal tempio di Chunjinam, dove risiede la monaca.
Attenzione: non si tratta solo di “mangiare”. Si tratta di partecipare a un rituale millenario, un atto di meditazione attiva e di profonda gratitudine. I sapori sono puri, essenziali, quasi archetipici. La dolcezza intrinseca del riso, il calore ristoratore della zuppa (un brodo leggero ma incredibilmente profondo, che sa di terra e di cielo). E poi i banchan che sono autentiche lezioni di gusto. Cioè verdure fermentate con pazienza certosina, radici che conservano il sapore del sottosuolo, erbe selvatiche che raccontano prati e montagne. Ognuno con la sua distinta, fiera personalità, ma tutti accomunati da una lavorazione che è puro rispetto della materia, esaltandone il sapore intrinseco senza mai mascherarlo. È un momento di introspezione profonda, un invito potentissimo a connettersi con il cibo, con se stessi, e con l’universo.
Il dolce tra pannacotta irriverente e canditi celestiali

La conclusione di questo viaggio memorabile è affidata a due dessert che sigillano la serata con eleganza, creatività e un pizzico di magia.
La Bibim-Pannacotta di Ferrari è l’ennesima dimostrazione di come si possa giocare seriamente con i classici. Una pannacotta dalla cremosità da manuale. Ma letteralmente “scompigliata” (come suggerisce il termine coreano “bibim”, che significa, appunto, mescolare) da un accostamento audace e riuscitissimo di frutta fresca, verdura croccante e un’inaspettata, quasi impercettibile ma incredibilmente intrigante, punta di gochujang, la mitica pasta di peperoncino fermentato coreana. Un tocco che regala un calore speziato, un “non so che” che ti fa sgranare gli occhi e sorridere. Un dessert che non ti aspetti, che danza mirabilmente tra dolce, salato e acidulo. Chapeau!

Accanto, a chiudere il cerchio con una nota di purissima poesia, i Canditi di radice di campanula e kumquat alla maniera coreana della monaca Jeong Kwan. Qui, la dolcezza è quella sussurrata, delicata e assolutamente naturale della frutta e delle radici trattate con una sapienza antica, quasi ancestrale. Una chiusura che ti riporta a una dimensione di purezza cristallina, di leggerezza assoluta, lasciando il palato pulito e lo spirito sereno. Divini.
Con Jeong Kwan non solo piatti straordinari
Quindi, cosa diavolo ci portiamo a casa da questo incontro romano, quasi mistico, con Jeong Kwan Seunim? Molto, ma molto di più del ricordo, pur indelebile, di piatti straordinari. Ci portiamo dentro una “scossa” benefica, tellurica, un invito prepotente a riconsiderare da cima a fondo il nostro rapporto con il cibo. La sua, lo ripetiamo fino alla noia, non è solo cucina; è una “filosofia commestibile” che parla, con una semplicità disarmante, di sostenibilità vera (non quella ammantata di greenwashing), di rispetto quasi filiale per i cicli della natura, di una gioia profonda, quasi infantile, che si può trovare nella più essenziale semplicità.
In un panorama gastronomico che a volte sembra aver smarrito la bussola, perso in un vortice di tecnicismi esasperati e inseguendo l’effetto speciale a tutti i costi, la lezione pacata ma potentissima di Jeong Kwan è un faro nella notte, una boccata d’ossigeno purissimo. Ci ricorda, con la forza tranquilla dei maestri, che l’eccellenza può – anzi, deve – risiedere nella purezza adamantina di un ingrediente colto al suo apice, nella pazienza quasi sacra di una fermentazione secolare, nell’amorevole, quasi invisibile cura di un gesto ripetuto come un mantra quotidiano.
È la scoperta di una “stella” di caratura diversa, una luce che non abbaglia con effetti pirotecnici, ma illumina il cammino con la sua radiosità quieta, intensa, serena. E se Scatti di Gusto ha il compito, che ci siamo scelti con passione, di raccontare le evoluzioni e le rivoluzioni del palato, beh, quella di Jeong Kwan è una delle più silenziose, gentili e, proprio per questo, potentemente sovversive che abbiamo mai avuto il privilegio di incrociare. Una cucina che, per dirla con un nostro classico, è “Molto interessante, molto particolare, gustoso, diverso. Molto”. Chapeau, tre volte chapeau. E grazie, dal profondo.