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Mozzichi di memoria e futuro nei quattro tempi della cucina romana

domenica, 05 Giugno 2011 di

Incontro Arcangelo Dandini in una tarda mattinata di un venerdì di ponte quasi estivo. Mi attende su uno dei suoi divani Chesterfield che rappresentano il salotto del suo ristorante, e dove si siedono soprattutto gli amici che casualmente, come dice lui, passano con la speranza di rimediare un supplì e un bicchiere di vino a scrocco.

L’occasione è una recensione atipica del primo libro di Arcangelo, “Memoria a mozzichi”, scritto a quattro mani con Betta Bertozzi e appena uscito in libreria e già raccontato su questo sito. Una recensione-conversazione con l’autore, pensieri quasi in libertà per capire un libro e la sua struttura.

Arcangelo, sul suo divano, mi ricorda un gattone: uno di quei grossi gattoni di strada romani, dall’aria perennemente sorniona, indolente e un po’ arrogante, che vedi immobili ma intuisci chiaramente che hanno un cervello in perenne movimento, che non ti diranno mai che ti vogliono bene perché te lo sanno dimostrare coi fatti meglio che con le parole.

Il libro l’ho letto in una giornata: ho ereditato da mio padre i geni della lettura veloce, ma in realtà le 250 pagine di memorie e ricette volano via che è un piacere.

Arci, tutti scrivono libri di ricette, l’ha fatto pure la Parodi… tu perché ti sei deciso? Non dire per i soldi che non ci crede nessuno…
Per dare un contributo alla mia memoria. Come scrivo anche nella mia carta al ristorante, è il richiamo più forte che ho, e le miei origini sono lo specchio per il mio futuro. Io separo i ricordi dalla memoria: i primi sono passato, la seconda è futuro. Sembrerà strano ma è così.

Si, va bene, ma diciamolo chiaro subito: il libro è stato scritto insieme a Betta Bertozzi, giornalista, scrittice, autrice di programmi televisivi… una che con le parole ci mangia, insomma! Come è nata l’idea del libro?
Betta è venuta un giorno al ristorante per intervistarmi e, conoscendomi, e intravedendo in me qualcosa di buono, mi ha proposto un libro di ricette. Attenzione: lei è una grande appassionata di cucina, una gastronoma e gourmet, e quindi non mi sono potuto vendere male! La verità è che abbiamo creato il libro in simbiosi, lavorando insieme anche 18 ore al giorno; spesso, Betta è stata come la mia psicologa: io sul lettino e lei pronta a rendere in italiano le mie idee, i miei ricordi, le mie memorie, la mia storia insomma. Quindi se mi chiedi come è stato scrivere questo libro, ovvero com’è scrivere un libro con un cuoco, posso rispondere – per lei – molto, molto difficile… ma perché mi conosco, è se è vero che a volte le mie memorie ci hanno fatto commuovere, so anche che è difficile dare una struttura e una lingua coerente a pensieri in libertà. Insomma, se il libro scorre bene e interessa non solo chi cerca una ricetta, ma anche chi vuole leggere, il merito è di Betta che è riuscita a rendere un libro di ricette – che in genere è un libro di semplice consultazione – in un vero libro di lettura.

E su questo sono d’accordissimo: forse solo in un altro caso (che tengo per me) mi sono divertito a leggere un libro di ricette, di seguito e senza saltabeccare da una all’altra, quasi fosse un saggio o un romanzo… bene! Passiamo oltre: da romano innamorato della sua città, ho molto apprezzato la suddivisione del libro nei quattro tempi: cucina di Apicio, cucina giudia, cucina secreta e cucina pastorale o testaccina. Credo che riflettano in modo molto chiaro la stratificazione temporale della cucina romana. Al di là delle ricette e della difficoltà di esecuzione, quale delle quattro è la tua preferita e perché?
Direi la cucina giudia, me ne sono reso conto scrivendo il libro. Tutto comincia con il “cum nimis absurdum…”, la bolla di Paolo IV del 1555 che, istituendo il Ghetto di Roma, arrivava a disciplinare quali cibi potessero consumare gli ebrei romani. Penso ai pesci: la bolla ordinava di mangiare pesci poveri! E poi gli scarti, il famoso quinto quarto. Il Papa voleva accomunare gli ebrei a cibo immondo, invece stava mettendo le basi per una grande cucina, dove non c’è prevaricazione sociale e tutti mangiano le stesse cose, dal rabbino all’operaio; una cucina che non distingue le persone ma anzi le unisce, senza ostentazione, al contrario di quanto è successo dal medio evo in poi, quando la ricchezza del cibo diventò una forma di affermazione dello status sociale.

Ogni ricetta è accompagnata da una memoria, un ricordo, una spiegazione. Insieme alle memorie aneddotiche, mi ha molto stupito il commento al Risotto con mirtilli e fegato grasso d’oca, in cui accenni all’importanza dell’associazione tra scala dei colori e gusto: una osservazione breve ma molto tecnica, che non ci si aspetta in un libro di ricette normale…
La prima cosa che si fa con un piatto è guardarlo, e dalla visione più o meno consciamente immagini cosa mangerai. Poi il gusto arriva dopo, dopo i profumi… è la parte finale del procedimento di assaporare il piatto. Mostrare quello che si andrà a mangiare… già all’epoca di Apicio si reclutavano cuochi specializzati nello stupire con piatti dalle forme più strane, e lo stesso Apicio realizzava piatti che sembravano cose diverse da quello che poi andavi a mangiare: è l’anomorfismo culinario, ti sembra che stai per gustare un pesce, e invece è un piatto di carne.

Dei quattro tempi – una vera recita culinaria – per me il più affettuoso e innamorato è quello della cucina giudia, popolato di personaggi (e di spiegazioni) che mostrano un grande amore per il ghetto, i suoi abitanti e la loro cucina.
Io abito nel Ghetto, vivo quei luoghi con affettuosa quotidianità. Le ricette giudie sono state ricercate e affinate intervistando vere autorità in materia, e credo che lo si capisca dallo sforzo anche tecnico che abbiamo fatto nella spiegazione non solo della semplice ricetta, ma anche di tutto quello che la ricetta rappresenta. E, poi, la cucina giudia mi affascina anche come conseguenziale alla privazione, alla costrizione subita dagli ebrei romani; ancora non risco a spiegarmi il senso della bolla papale.

Alcune ricette sono forse poco casalinghe ai giorni d’oggi, ma di sicuro effetto. Il potaggio di lumache di San Giovanni è la prima ricetta che leggo che supera il concetto del chilometro zero per indicare il posto esatto – le mura di porta Latina – dove raccogliere le lumache… Amore per la città estremizzato, riconoscenza per l’opera dei romani, o semplice pignoleria?
Ho sempre confessato che molte mie ricette derivano da una elaborazione della cucina apiciana; con Bartolomeo Scappi, invece, ho preso una struttura, una idea di cucina, e l’ho riportata a oggi, fermo restando gli elementi di base. La cucina del ‘500 non può certo farsi oggi con la stessa ossessione cinquecentesca per la materia prima: diciamo che ho seguito più i ragionamenti che i dettagli, e quindi, ragionando sull’oggi, ho pensato che le lumache del potaggio non potevano non venire che dalle mura latine. Una grande modernità, quella di Scappi, difficile da realizzare oggi: ma tutti icuochi moderni dovrebbero leggere Scappi per capire la sua genialità, ancora insuperata.”

arcangelo-tentativo-carbonara

Il tuo è un libro di ricordi: però non può sfuggire un’apparente dimenticanza fra le ricette, ovvero la carbonara – piatto per te celebre – e anche il cacio e pepe… scelta precisa, sovraffollamento di ricette o che altro?
Volontà e scelta precisa. Quelle che dici sono le due ricette più spurie della cucina recente, entrambe senza memoria. Riflettendo oggi sulla cucina, capisci che non c’è memoria della carbonara se non dopo il 1950; pensa, neanche Ada Boni ne parla, ed era il 1930… L’idea del libro è volutamente rigorosa nel seguire la memoria, e affrontare piatti recenti non mi è sembrato corretto. In fondo, chi è che ha mai parlato del cacio e pepe? E’ un piatto senza memoria!

Parli di Apicio e Scappi, forse i due cuochi più opulenti della storia. Eppure il rimando è sempre a ingredienti semplici o umili o dimenticati: dalle anguille, alle rane, alle erbe povere di campo. Questo perché in fondo la cucina romana è di recupero (vedi il quinto quarto) o perché non è più momento per opulenza a tavola?
Semplicemente, molte ricette erano infattibili, e comunque ho voluto parlare di ricette ed elementi basici. La forza della comunicazione in cucina, per me, è quella: l’alice deve essere uguale all’aragosta, e deve essere trattata con identico rispetto, in linea con le preparazioni, e così io faccio nel mio ristorante. E poi, in fondo, tutto quanto riportato nel libro è un chiaro riferimento alle cose a cui sono legato.

Si sa, i cuochi sono tennisti, non calciatori. Poco gioco di squadra, al più si comanda la brigata. Tu però abbondi in ringraziamenti a colleghi (dai fratelli Roscioli a Claudio Gargioli, da Pierangelini ai Trabalza) dicendo chiaramente che alcuni dei tuoi migliori momenti di “cuoco che mangia” sono stati presso la concorrenza (vedi Settimio al Pellegrino): perché sei stato così cortese? Ovvero: credi nella collaborazione tra cuochi, tanto da elogiarli nel libro. Io non ho mai letto simili ringraziamenti…
Li ringrazio perché loro fanno parte della mia memoria e da tutti loro prendo e ho preso spunti per la mia cucina: in fondo, gli spunti li prendo anche da McDonald! Mi hanno aiutato e mi aiutano ancora oggi a costruire la mia professionalità, e quindi è per me doveroso ringraziarli. La memoria, insieme ai ragionamenti, mi hanno aiutato a costruire i miei piatti e anche il luogo ove ristorare, il mio locale, l’Arcangelo.

Gnocchi di semolino, stracciatella… c’è ancora tempo per proporre in carte simili piatti? O sarebbe solo una provocazione?
Si, certo che sono piatti da carta: da ottobre in poi vedrete… Anzi, tutti i piatti del libro li metterò in carta, a scadenza mensile o in base alla stagionalità.

Ho 18 euro e 50 centesimi nel portafoglio: compro il tuo libro o mi siedo per un piatto unico al tuo ristorante?
Meglio mangiarsi una cosa, sempre! Rimango sempre cuoco e ristoratore!

Arcangelo Dandini, Betta Bertozzi – “Memorie a mozzichi” – Gargantua&Pantagruel – Aliberti – euro 18,50.

Foto: Francesco Arena