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17 Novembre 2011 Aggiornato il 15 Giugno 2020 alle ore 22:13

Enologica 2011. Dal Piastrino il tipico di Riccardo Agostini

Enologica 2011. Dal Piastrino il tipico di Riccardo Agostini

A Faenza, venerdì 18 dicembre, parte la nuova edizione di Enologica, il Salone del Vino e del prodotto tipico dell’Emilia Romagna. Un appuntamento con un cartellone molto ricco che vedrà Scatti di Gusto impegnato nel Caravanserraglio, lo spazio culturale che vuole promuovere l’idea di un luogo di accoglienza che si nutre di scambio, di comunità e di confronto. Se ad Enologica il vino ha un ruolo di primissimo piano, il cibo non è da meno con i tanti espositori del Tipico. E poi c’è il Teatro dei Cuochi, lo spazio in cui i piatti avranno il giusto risalto con 40 posti disponibili a 5 euro prenotabili via telefono allo (+39) 0546.621111 oppure scrivendo via mail.

Quando i cuochi tornarono in cucina. Potrebbe essere questo il titolo sotto il quale catalogare tanti giovani talenti che negli ultimi anni, senza rinnegare le intemperanze delle avanguardie o il rigore dell’haute cuisine, hanno decretato il revival della cucina cucinata. Un po’ come i pittori che decisero di rintingere i pennelli nella tavolozza, piuttosto che appendere ruote e orinatoi, negli anni ruggenti e italianissimi della transavanguardia. La loro è una cucina che gioca nuovamente in casa, trovandovi pubblico e ragioni, contro l’esterofilia disciplinare dei métissage e quella geografica degli spagnolismi. La differenza con santini e sanctorum dei nostalgici sta nella pennellata gustativa sul piatto, dove un filetto o un gomitolo di spaghetti possono tornare protagonisti nella loro matericità, senza smettere di irradiare spirito contemporaneo.

Non poteva esserci momento migliore, allora, per ridistendersi al sole giaguaro della patria. Grazie a un noto anniversario, ma anche per la coincidenza dei ritorni. Quello della cucina a cucina cucinata, per una mossa di yo-yo generazionale e sincronizzata; e quello di Riccardo e Claudia Agostini nel paese natio, Pennabilli, dopo peregrinazioni professionali haut-de-gamme.

La loro patria non è quella miniaturizzata delle scale cartografiche, ma si sbriciola in micron di soggettività impalpabile e corpuscolare. Prendere l’aereo per volare in Danimarca ha abbassato lo sguardo di Riccardo su un Montefeltro ad alzo zero. Dove pescano le radici delle erbe o dove volano brevemente i pollini, portati da un refolo di primavera. La patria del lievito madre, animato da microrganismi simili a un genius loci, e quella altrettanto invisibile e ficcante delle zolle di terra, serbatoio di mineralità che riproduce il DNA del territorio.

Ed è da qui che ha preso il largo l’avventura del Piastrino. “Nel 2007, quando siamo arrivati, era una specie di agriturismo, con i servizi all’esterno; apriva sporadicamente, nella bella stagione o per il fine settimana. Ma lo conoscevamo già e ci era sempre piaciuto. Così quando la proloco di Pennabilli ci ha offerto questa opportunità, abbiamo subito accettato”. Nel cuore del Parco Begni, che lambisce tutto il paese, sono una trentina di coperti incartati nella pietra viva e nelle travi, scaldati in ogni saletta da un camino. Mentre la cucina interrata, dove una volta c’erano la mangiatoia e il fienile, fa take off via montacarichi. Subito fuori sta il giardino con uso cucina, un fitto via vai di cuochi a cogliere lavanda, timo, maggiorana, salvia, ma anche mirto, liquirizia, origano di vari tipi e issopo. Lo segue personalmente Riccardo, con l’aiuto del padre Tommaso . “Il contesto naturalistico mi piace molto. Razzolando nei prati mi imbatto in tanti possibili ingredienti: ortica, diversi tipi di erbette, senape, crescione. Li riconosco grazie a mia suocera Tina e alle signore che ci sono qua intorno. Mi piacerebbe anche codificarli, come Lucio Pompili, un maestro che riesce a creare misticanze magiche solo cercando nella sua campagna”.
Della partita e della brigata fanno infatti parte gli appassionati genitori. “Mio padre faceva il fornaio. Anche se il pane dopo 40 anni non vuole più farlo, continua a darci dei consigli, sulle dosi di madre piuttosto che sui tempi. Sicuramente nel suo forno ho respirato un mondo. L’arte bianca. A sentir lui da piccolo mi sono pure tuffato nelle marmellate, inciampando. Lavorava di notte, una vita a sé come quella dei cuochi. Senza una famiglia vicino sarebbe difficile mandare avanti una struttura simile in momenti così particolari”.

Hai deciso di fare il cuoco vedendo l’esempio di tuo padre?

Penso di sì. Anche mia madre era dell’ambiente, perché faceva la pizzaiola, e oggi ha un bar. Così ho sempre avuto questo pallino. Me lo ricordava un’amica, qualche tempo fa: “È da quando facevi la terza elementare che vai dicendo che vuoi fare lo chef. Hai visto che ci sei riuscito?”. Abitando qua però non è stato facile, anche come scuole. L’alberghiero ho dovuto frequentarlo a Rimini, da pendolare con il tram. Partivo alle 6 e un quarto di mattina e tornavo alle 2 e mezzo di pomeriggio.

Come si mangiava a casa tua?

Bene, ma i i miei genitori avevano degli orari un po’ particolari, quindi non sempre c’era il tempo per chissà cosa. Fondamentali invece sono state le nonne, che mi hanno trasmesso l’imprinting dei sapori, tutte e due. La domenica non era domenica se non andavamo in gita da loro, ma ci passavo anche periodi abbastanza lunghi. Vivevano nelle campagne qua intorno e da giugno a fine agosto giocavo al piccolo contadino con loro. È un altro mondo che ho respirato: la passione per gli animali da cortile, polli, anatre, faraone, tacchini; avevano anche un paio di bovini e mungevano, facevano la ricotta, il formaggino. Sono sapori che mi sono rimasti dentro. Se dovessi sintetizzare ciò che mi hanno lasciato, direi che non esiste filiera più corta della loro. Professavano veramente la stagionalità e il chilometro zero. D’inverno magari era la tagliatella con il ragù di rigaglia, poi d’estate si spaziava un po’ più nell’orto.

Il pesce qui non c’era?

Qualcosa di acqua dolce, ma non c’è mai stato un mercato. Seguendo questa traccia, quando ho aperto avevo chiare alcune scelte. Primo: non fare un ristorante alla moda, ma collocarlo bene nel suo ambiente. Perciò nei primi due anni abbiamo deciso di utilizzare solo prodotti locali, sia per gli ortaggi che per le carni. Poi abbiamo inserito un po’ di pesce, solo quello che si può trovare in collina, però. Quindi pesce di lago, pesce di fiume e conservato. Acciughe, storione, gamberi di fiume, baccalà. Anche per differenziarci da certi ristoranti, dove capita di mangiare il cervo in Sicilia e i gamberi rossi in Alto Adige. Ho preferito immedesimarmi nel territorio.

Che parte del fabbisogno riesci a coprire in loco?

Buona parte. Più del 50% per gli ortaggi e le carni. Poi non voglio privarmi di tante cose. Mi piace il fegato grasso e lo uso. Anche i pesci arrivano da fuori. A casa abbiamo un piccolo orto con melanzane, pomodori, patate. Ci lavora prevalentemente mio padre, perché va curato quotidianamente.

A chi ti rivolgi per riempire il paniere?

Cerco di evitare la grande distribuzione per rifornirmi dal macellaio che magari il lunedì macella, in modo da avere il quinto quarto. E cerco anche di influenzarlo, se ci riesco. Sono gli stessi artigiani che riforniscono le famiglie, piuttosto che produttori per la ristorazione. Perché il tessuto qui è ancora vivo.

Come si è svolto il tuo ingresso nella professione?

Le mie prime esperienze le ho fatte in riviera, e sono state molto deludenti. Sfamifici dove si lavorava in catena. È il mercato che c’è in zona: diventi chef molto in fretta, ma uno chef apriscatole, che infila surgelati e conservati nel forno e tira fuori un menu. Dopo un anno o due di queste cose ho cominciato a stancarmi. Ho avuto la fortuna di appoggiarmi a un amico che era già un ottimo chef, Luigi Sartini della Taverna Righi di San Marino, dove sono rimasto per 2 anni e mezzo. Era appena uscito da Marchesi, quindi ricordo una cucina molto diversa da quella attuale. Concettuale nella creazione del piatto, nel colore, nell’abbinamento, mentre adesso siamo più attenti alla stagionalità e a tecniche nuove che mettano al centro il prodotto. È stata una bellissima esperienza, che mi ha permesso di conoscere tutte le partite, compresa la pasticceria. Mi sono innamorato del lavoro del ristorante ed è sorta la voglia di fare uno stage. Dove vai, dove non vai, salta fuori l’occasione di Vissani. Dovevano essere 8 mesi e sono diventati 10 anni.

Un bel salto. Come sei riuscito a inserirti?

La prima cosa che ti dicono al tuo arrivo è che devi dimenticare tutto ciò che hai fatto in precedenza. E infatti te lo fan dimenticare; se non riesci a inserirti nello staff di cucina, quando c’è il servizio finisci sempre a lavare le pentole. È stato così che piano piano ho conquistato la mia partita, è uscito fuori il mio stile e sono diventato sous-chef. Grazie anche alle mie esperienze di banchettistica, perché ero quello che si sapeva organizzare nelle situazioni più complicate. E alla capacità di fare gruppo: se le persone che hai intorno ti prendono come punto di riferimento, piano piano vai avanti.

Caratterialmente come vi siete presi?

Bene. Le persone eclettiche sono tutte un po’ sopra le righe; lui poi, che è un uomo di campagna, può essere molto colorito nelle espressioni, ma fondamentalmente è buonissimo. Pensa che dopo 10 anni a Baschi, quando ho voluto provare nuove strade, per non commuoversi nel momento del distacco è partito.

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Come si divideva i ruoli con i suoi famigliari?

Tutto quel che si fa al ristorante passa per la sua idea o la sua autorizzazione, il singolo piatto come il dettaglio nel servizio. La moglie ha sempre seguito la messa in pratica, sia in sala che in cucina. Faceva le salse e la cottura delle carni, nonostante avesse imparato solo dal marito, e non è mai mancata in 10 anni. In sala oggi si è aggiunto il figlio Luca, che è cresciuto e sta mettendo molto di suo.

Come ti spieghi che una persona così semplice possa avere un simile estro?

Non lo so. A volte cercavo di capire perché facesse determinate scelte o determinati abbinamenti, ma lui è un istintivo. Oltre che un profondo conoscitore delle materie prime di tutt’Italia, roba che a volte rimani sbalordito.

Quindi i prodotti te li ha insegnati lui?

Sì, e lui è a tutto tondo. All’inizio, prima dell’esplosione televisiva, aveva più tempo e si dedicava interamente alla casa. Dopo il servizio, verso mezzanotte, partivamo per i mercati generali di Roma con un paio di ragazzi, aspettavamo le 3 davanti all’asta del pesce, poi andavamo a fare le verdure. Tornavamo alle 7-8 della mattina.

Come trasmetteva il suo sapere, le ricette per esempio?

Empiricamente. Bisognava capire il suo stile, entrare nel suo modo di pensare. Lui lanciava l’idea, spesso al telefono: “Mi fai questa quaglia con lo spaghetto cacio e pepe?”. Io gli realizzavo il piatto e glielo facevo provare, poi lui faceva le sue osservazioni, aggiungiamo questo, togliamo quello, ci vuole un contrasto acido, eccetera. Ma lui non scriveva mai le ricette. Le scrivevamo io e la sorella pasticciera. Vederlo mangiare faceva un po’ ridere, perché crea piatti complessissimi, ma poi vuole mangiare le rigaglie di pollo o il piccione in umido cucinati dalla mamma.

Cosa ti è rimasto dell’Umbria?

Per me è un pezzo di vita, un pezzo di casa cui torno spesso. Mi sono rimasti i gusti, alcuni prodotti, la bontà dell’olio, che appena spremuto su certi piatti è ideale. Poi mi è piaciuto scoprire la cottura sotto la cenere, che è una bassa temperatura ancestrale. La massa di carboni a 150 °C, il calore che scema dolcissimo con un tocco affumicato.

La tua cucina però è molto diversa da quella di Vissani, che è esuberante, barocca, manierista. E anche il tipo di ristorazione è agli antipodi, perché il locale di Baschi è molto lussuoso.

Sì, ma la stagionalità e la cura della materia prima sono aspetti che devo a lui. E il locale quando sono arrivato sembrava un posto per camionisti: da una parte c’era Vissani, dall’altra la sala del padre, il Padrino, dove il cliente sceglieva il pesce di Anzio e glielo cucinavano. Anche l’immagine del piatto forse viene da lui, perché parto da uno spunto su cui poi faccio solo qualche prova. E il gusto va di pari passo con la presentazione.

Qual è stato il passaggio successivo?

Dopo un’esperienza così importante la mia esigenza era quella di mettermi alla prova, accantonando i vecchi menu, che pure amo collezionare. Così, non avendo ancora la possibilità o la maturità per partire da solo, mi sono affidato all’Osteria del Povero Diavolo, dove sono rimasto per 2 anni e mi sono fatto un po’ conoscere, grazie a giornalisti come Garcia Santos e Paolo Marchi e ai proprietari, che sono ben inseriti.

Immagino che tu volessi anche tornare a casa, riavvicinarti alle radici. Claudia ti aspettava qua?

Forse mi mancava un po’ la campagna, la famiglia, per cui altre proposte, a Firenze come in Piemonte, le avevo lasciate cadere. Cercavo un altro locale famigliare, come era stato anche Vissani. Ma Claudia era già con me. Ci siamo fidanzati giovanissimi, nel 2001 ci siamo sposati e lei subito dopo si è trasferita in Umbria, dove abbiamo avuto la nostra prima bambina. Quindi era venuta per seguirmi, ma nel lavoro è entrata dalla porta principale e ha avuto un’ottima formazione. Era un foglio bianco e ha imparato ad abbinare le posate, a capire il cliente. Più tardi per passione ha frequentato anche i corsi da sommelier.
L’amore per la cucina però ce l’ha sempre avuto, perché giravamo insieme per ristoranti. Un paio di scappate l’anno me le faccio sempre, con lei o in compagnia di colleghi: per me sono come uno stage, mi danno lo stimolo per innovare.

Per esempio?

L’ultimo è stato il Noma di Copenhagen, entusiasmante. Più bello e comprensibile di Ferran Adrià, che è un po’ un laboratorio, molto tecnico e gustativamente difficile. Mentre da Redzepi ho mangiato molta natura, piatti puliti e divertenti, nonostante le tecniche innovative. Tante verdure, qua e là un’ostrica o un filettino di pesce, comprimari anziché protagonisti in mezzo a creme, estrazioni vegetali, formaggi nordici e qualche sferzata agrodolce. Quando siamo tornati io e Giuseppe eravamo lì che assaggiavamo tutte le erbe, cercavamo il muschio croccante…
Il prossimo viaggio sarà da Andoni ed Etxebarri. Perché una delle prime cose che ho voluto fare in cucina è stato il camino con la brace, per i profumi, l’affumicatura e con il cartoccio per finire le carni.

Al Povero Diavolo hai iniziato a fare la tua cucina?

Sì, ho avuto per la prima volta la possibilità di tradurre in pratica le mie idee e il mio stile, in modo più o meno consapevole. Ed è stata una bella palestra per familiarizzare con i prodotti del territorio e una ristorazione diversa. Ma è stato anche un salto nel vuoto, passare da una brigata di 15 persone a una cucina dove c’erano solo lo chef che lavava le pentole e un aiutante marocchino. Il primo giorno ho detto: “Claudia, io non so se ce la faccio a cucinare l’agnello alla piastra come le trattorie”. Perché lei non era con me, per un paio d’anni si era dedicata a fare la mamma. Pensavo di partire, poi dopo 3 o 4 giorni ho cambiato il menu, ho cominciato a fare quello che mi piaceva e siamo partiti. Sono stati due anni pieni di soddisfazioni, con qualche parentesi un po’ sciocca.

Piatti simbolo di quel periodo?

Non saprei, perché io non mi affeziono più di tanto. E anche lo stesso piatto, reinterpretato nella stagione successiva, cambia valenza, perché hai un altro pensiero o magari hai conosciuto una tecnica diversa. Così si evolve la tradizione che andiamo a cucinare.

Quando sei tornato a Pennabilli, che tipo di locale avevi in mente?

Come ti accennavo, siamo partiti con l’intenzione di tenere una fascia di prezzi molto lineare, che valorizzasse con intelligenza le materie prime. Perché volevamo coinvolgere più persone possibili, compresi i giovani. Volevamo continuare a ricercare, mettendo a frutto le conoscenze acquisite, ma rendendole fruibili a persone meno avvezze. E devo dire che sta funzionando, è una vallata che risponde bene. Il pennese magari viene nel momento particolare, per festeggiare con gli amici. Mentre altra gente per fortuna ci premia e fa della strada per visitarci. Ma c’è ancora un forte timore, economico e non solo, verso la ristorazione. Sarà l’ambiente compassato, sarà il gusto nuovo rispetto al comfort food. I salumi e i formaggi selezionati che teniamo in carta per molti restano un’ancora di salvataggio. Mentre Tonino Guerra ama scoprire: “Cosa mi fai mangiare oggi?”, chiede ogni volta.

La tua tipologia di ristorazione assomiglia più ad una forma di “alta trattoria” che alla bistronomia.

Sì, mi sento diverso da chef come Oldani o Aizpitarte, che operano in un contesto urbano. Io uso i prodotti stagionali, non solo quelli poveri. Non mi interessa cucinare qualsiasi cosa cada in una certa fascia di prezzo, per scelta ideologica, senza sapere da dove arriva e come è fatta. La trattoria dal canto suo è in uno stadio confusionale, dovrebbe svolgere un compito di conservazione di memorie e prodotti, civiltà gastronomica insomma, invece è diventata un fattore di omologazione. E forse è una missione di cui può farsi carico gente come me, quella di stimolare il territorio con la tradizione contemporanea. Perché alla fine è più tradizionale Massimo Bottura, con le sue tecniche applicate ai prodotti emiliani, di tanti locali che ormai vanno a rucola.

È un discorso particolarmente vero oggi, quando il declino dell’egemonia spagnola ha rintuzzato l’esterofilia.

Sì, per noi è un bellissimo momento, nonostante la sordità delle istituzioni. Perché alla fine le autorità vanno sempre a finire sul tagliere del salame. E questo è il rischio della patria, che si riduca tutto alla banalità, alla ripetizione. Ma la tradizione si evolve, quella di oggi è diversa da quella di un tempo, per una questione di stili di vita e non solo.

Parliamo del tema della patria, allora. Cosa vi ha suggerito?

L’unità d’Italia per come la intendo io è un’officina, nel senso che alla fine ognuno di noi ha il suo modo di praticarla, usando prodotti, esperienze e stimoli ad ampio raggio. I ragazzi che passano da qui diventano amici, poi magari si disperdono ed entro in contatto con altre zone d’Italia. I rapporti sono diversi da un tempo perché molte cose le scopriamo insieme, le basse temperature per esempio quando ho iniziato a fare il cuoco non c’erano. Sono tecnologie che hanno un po’ terremotato gli organigrammi di cucina.

Come illustreresti il Montefeltro a uno di questi cuochi forestieri?

La nostra cucina è un misto. L’influenza della Romagna è forte, nei prodotti come nelle preparazioni. La pasta fresca, all’uovo o senza, non manca mai nel menu. Ma le buone carni e gli animali da cortile forse provengono più dalla Toscana, che dista 4 chilometri, subito dietro la collina. Quindi è una zona fusion, e il sincretismo amplia lo spazio di manovra.
A chi spedisce un curriculum consiglio sempre di farsi un giro a Pennabilli, perché è un posto particolare. C’è stato un brasiliano che non aveva mai visto la neve, era contentissimo. I genitori invece: “Scappa via! Hai il cibo?”. Perché l’inverno è molto rigido.

Suggerirà anche una cucina particolare.

Sì, quando viene il freddo si comincia con i prodotti del bosco, tartufi, funghi, castagne. Anche selvaggina, perché è un parco naturale e c’è l’abbattimento selettivo. Quindi caprioli, cervi e cinghiali. Ma gli ingredienti invernali sono difficili da stimolare, hanno la grevità di quanto stenta a crescere. Preferisco la primavera e l’autunno con i loro profumi.

C’è un ingrediente che per te rappresenta Pennabilli?

Una cosa che mi affascina molto è il fiore di sambuco, un profumo simile al Sauvignon, che ricorre spesso nella mia cucina. Da aprile a maggio è tutto uno sbocciare, ma io lo conservo anche essiccato. E sto scoprendo che non è un’invenzione personale, perché tradizionalmente veniva già utilizzato. Oppure il raveggiolo: lavoro molto con le cagliate, prendo il latte di capra o di vacca di un piccolo produttore e se lo aromatizzo con erba limoncina o melissa, diventa già interessante. Invece è impossibile importare il corbezzolo, la ciliegia selvatica autunnale dell’Umbria. Ci ho provato invano tantissime volte, mentre nel bosco di Civitella del Lago rosseggiano centinaia di bacche.

Il tuo pane è lievitato naturalmente. Da chi hai imparato?

Piano piano, con alcuni amici. La mia madre, a base di mela, uva e farina macinata a pietra in un mulino vicino, ha 4 anni, l’età del locale. C’è un’amica pasticciera che è venuta a lavorare da me, aveva preso il lievito madre da Luca Montersino e ogni tanto ci confrontiamo, facciamo scambi, mescoliamo. Al ristorante ci sta dietro Giuseppe, che si dedica solo a questo: prepara l’impasto del giorno, il rinfresco, il nutrimento e il bagnetto in acqua e zucchero. Sono attività che richiedono empatia, come un tamagotchi. Un ragazzo giapponese che lavora con me era rimasto colpito da un maestro che aveva catturato i batteri dalla natura nel bosco, innescando la fermentazione. Un giorno l’ho visto con la sua bacinella sotto gli alberi, è riuscito a panificare ma il risultato era un po’ troppo strano…

Che piatti porterai ad Enologica?

Siamo in novembre, quindi ho pensato ai gamberi di fiume con finferli e bacche di bosco, sambuco, mirtillo e prugna selvatica. Tutti ingredienti locali, a volte presi dal giardino. Nella creazione di un piatto parto sempre da un prodotto, in questo caso il fungo con la sua mineralità, che si abbina bene ai gamberi di fiume. Mentre i frutti acidi compensano la dolcezza e puliscono il palato grazie all’acidità e ai tannini. E l’infusione a freddo di finferli e carapaci di gamberi potenzia il corpo complessivo. Come piatto storico invece potrei portare la battuta di scottona della Val Marecchia con crema di pistacchi di Bronte e piccole perle fondenti di Parmigiano che esplodono in bocca. Un abbinamento abbastanza tradizionale, che non è mai uscito dalla carta.

I tuoi piatti hanno sempre 3 ingredienti?

Quasi sempre, al massimo 4. L’ultima volta che siamo stati da Vissani invece ho perso il filo, non riuscivo più a capire il perché di certe cose, perché è molto cambiato. Mentre io oggi come oggi preferisco avere pulizia e complicità fra gli ingredienti. Cerco soprattutto la linearità. Come la cipolla con succo d’uva di Redzepi, che è equilibrata, ti soddisfa, anche se non è fatta per il mercato che c’è qui. Sono suggestioni che magari tengo per me o per un altro menu.
Gli antipasti in generale li trovo meno complicati, mentre scampare alla banalità nei primi piatti è un’impresa: diventiamo tutti più esigenti, perché è il gusto italiano. Quindi c’è il rischio della banalità, e poi quello che l’innovazione sia inferiore al modello.

CANTINA
. Nelle amorevoli mani di Claudia, coadiuvata negli ultimi tempi da Vincenzo Donatiello, la cantina del Piastrino si è allargata per cerchi concentrici, partendo sempre dal territorio. Intorno a Pennabilli le prime vigne distano 30 chilometri, retaggio amaro di un’agricoltura abbandonata negli anni ruggenti del boom economico. Ma i territori del Montefeltro si dipartono con una fuga esaltante: Toscana, Emilia, Marche. Autostrade lanciate verso culle ancor più blasonate.
L’occhio di riguardo è per i vini naturali, biologici o biodinamici che siano. Una passerella fra i filari di vite e i fornelli di cucina, avvinti in un paradigma che parla di soggettività, territorio, riscoperta delle patria come suolo dei padri contro l’omologazione.
Gli abbinamenti che ne conseguono vengono concordati fra Vincenzo e Riccardo in modo da completare il piatto con note sgargianti di creatività.
“Con i gamberi proponiamo il MonteRè Ravenna Bianco IGT 2003 Vigne dei Boschi, da uve albana”, illustra Vincenzo. “Abbiamo infatti un piatto complesso, dai toni sapidi, con l’acidità e la tannicità delle bacche; allo stesso tempo il gambero di fiume ha una discreta tendenza dolce e grassezza. Queste sfaccettature chiamano un vino altrettanto eclettico, che cresca di sorso in sorso e possa sorprendere, senza sopraffare il piatto e senza farsi sopraffare dallo stesso. L’Albana 2003 di Paolo e Katia Babini è un vino particolarissimo, in un’epoca evolutiva molto interessante. Le note di maturità, con i primi sentori idrocarburici, aiutano ad accompagnare la persistenza gusto olfattiva.
La questione palatale diventa un pelino più delicata, ma mentalmente stuzzicante. La sapidità di un Albana maturo crea contrasto con la tendenza dolce naturale dei crostacei; il giusto apporto pseudocalorico dell’alcol e un leggero residuo zuccherino ( presente solo in quest’annata) puliscono il palato dalle sensazioni acide e leggermente allappanti delle bacche ed allungano il sorso sull’infusione di funghi e carapaci, completando la chiusura di bocca.
Per il battuto di vitellone invece abbiamo scelto il Borgo Stignani Ravenna Rosso IGT 2006 da uve malbo.
Essendo il battuto uno dei piatti più rappresentativi del ristorante, ho pensato di chiedere al produttore quale fosse uno dei suoi prodotti più rappresentativi, in modo da creare, oltre ad un abbinamento gustoso e corretto, anche un filo logico nella mente di chi assaggia.
Il battuto è un piatto caratterizzato dalla grassezza e dalla tendenza dolce della carne, alla quale si aggiunge quella della crema di pistacchi e delle perle di Parmigiano – grassezza che ci sposta anche verso una certa untuosità, data più che altro dalle consistenze.
Il Malbo 2006 si muove su belle note rinfrescanti e possiede una leggera scia sapida capace di contrastare la grassezza e la tendenza dolce. La sua leggera tannicità spolvererà il palato dall’untuosità del Parmigiano fondente, e grazie al carattere decisamente morbido può accompagnare la complessità dell’assemblaggio di ingredienti”.

(Alessandra Meldolesi)

1. Alberto Bettini della Trattoria Amerigo di Savino (Bologna)

2. Carla Aradelli del Ristorante Riva di Ponte dell’Olio (Piacenza)

3. L’anguilla arrosto di Maria Grazia Soncini della Capanna di Eraclio

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