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Enologica 2011. Amerigo e la bellezza della patria all’estero

A Faenza parte Enologica, il Salone del Vino e del prodotto tipico dell'Emilia Romagna. Tra gli chef c'è Alberto Bettini (Trattoria Amerigo) con i suoi piatti
lunedì, 14 Novembre 2011 di

A Faenza, venerdì 18 dicembre, parte la nuova edizione di Enologica, il Salone del Vino e del prodotto tipico dell’Emilia Romagna. Un appuntamento con un cartellone molto ricco che vedrà Scatti di Gusto impegnato nel Caravanserraglio, lo spazio culturale che vuole promuovere l’idea di un luogo di accoglienza che si nutre di scambio, di comunità e di confronto. Se ad Enologica il vino ha un ruolo di primissimo piano, il cibo non è da meno con i tanti espositori del Tipico. E poi c’è il Teatro dei Cuochi, lo spazio in cui i piatti avranno il giusto risalto con 40 posti disponibili a 5 euro prenotabili via telefono allo (+39) 0546.621111 oppure scrivendo via mail.

Alessandra Meldolesi (giornalista enogastronomica, sommelier, traduttrice specializzata e food writer.autrice di una monografia sullo Champagne con le ricette dell’Enoteca Pinchiorri, il primo ricettario di Carlo Cracco e una prestigiosa miscellanea sull’alta cucina spagnola, da Ferran Adrià ad Andoni) ha intervistato alcuni degli chef che si avvicenderanno sul palco di Enologica. Come Alberto Bettini, della Trattoria Amerigo di Savigno (Bologna) che sarà a Enologica nella giornata di lunedì dedicata agli operatori alle ore 12.30. (V.P.)

Amerigo rappresenta da decenni un unicum agli occhi dei gourmet, per la sua capacità di coniugare istanze contrapposte in una sintesi che ha precorso i tempi e le mode. Come ci siete riusciti?

La storia è quella nota. Di mio nonno Amerigo che nel 1934 ha deciso di fare lavorare mia nonna e di aprire l’osteria. Perché a quei tempi in campagna erano tutte osterie, non c’erano né trattorie né ristoranti. Visto che è morto nel ’74, me lo ricordo bene; e mia mamma dice sempre che gli assomiglio molto. Da quando ho memoria sono sempre stato in giro con lui. Tutte cose che un ragazzino sui dieci anni non vuole fare, perché di solito a quell’età preferirebbe andare al fiume in bicicletta oppure giocare a calcio. Quindi da un certo punto di vista non mi piaceva molto quando mi cercava, ma da un altro punto di vista era molto interessante. Per esempio già allora amavo stare in cantina, piuttosto che in cucina. Perché nel frattempo le osterie si erano metamorfosizzate in trattorie.
Il nonno aveva origini contadine e il vino se lo faceva da solo, finché non è morto; comprava l’uva in giro dai suoi amici e poi vinificava. Era molto naturale, biologico ante litteram, se vuoi, con la fermentazione a tini aperti, i lieviti indigeni e la filtrazione con i sacchi; però i contadini tenevano la vigna come pareva a loro, quindi l’uva tanto naturale non era. Il mio primo ricordo in assoluto è di essermi svegliato una mattina, verso i 4 anni, con questo odore di mosto. E sentivo gente che faceva rumore, perché sotto la mia stanza c’era la cantina, che oggi ospita da una parte i miei vini, dall’altra il laboratorio per la lavorazione delle carni. Ho aperto la finestra e mi è arrivata questa zaffata di uva pigiata. Una sensazione inebriante, che non mi ha più abbandonato. L’odore di mosto da allora mi colpisce sempre, e quando vado nelle cantine mi visita il ricordo. Il vino lo assaggiavo e mi piaceva già allora, perché non c’era il salutismo di adesso. O forse ce n’era anche di più, perché io sono nato in cantina e ho iniziato a bere con mio nonno, ma non mi sono mai ubriacato. Il mio compito principale era imbottigliare con la macchinetta manuale, mentre tappare mi piaceva poco, ed era anche pericoloso perché ogni tanto scoppiava qualche bottiglia. Mi piaceva molto anche filtrare e pigiare le vinacce per ricavare il torchiato, che era un vinello di seconda scelta per gli amici.
In cucina c’erano mia nonna, mia madre e mia zia, perché a quei tempi era una professione esclusivamente femminile. Mai nessun uomo di campagna si sarebbe messo ai fornelli, non sarebbe stata considerata un’occupazione decorosa. All’inizio l’offerta era limitata: c’era quello che c’era. L’osteria fungeva prevalentemente da luogo di ritrovo per le persone del paese e coloro che venivano dalle campagne circostanti, perché Savigno è un comune molto vasto, che ha sempre rappresentato il centro commerciale dell’Alta Valle del Samoggia. La gente scendeva il sabato, la domenica o il martedì, che era giorno di mercato. Si ritrovava nell’osteria a bere e fare una partita a carte e magari verso l’ora di pranzo mia nonna faceva uscire un piatto di lasagne, un coniglio arrosto o una cacciatora di galletto. Quello che mio nonno aveva trovato in giro. Perché di fianco all’osteria, dove adesso c’è la dispensa, si trovava la drogheria, dove vendevano prodotti di consumo, come la pasta, le farine e il sale, ma anche un po’ di vino e qualche animale da cortile raccattato in campagna. Quando mio nonno ne aveva in eccesso andava via la mattina per venderli a Bologna e tornava la sera. La dispensa è nata da questa idea, di mio nonno che raccoglieva prodotti e andava a venderli. Un po’ quello che mi piace fare adesso.

Cosa ricordi degli insegnamenti di tuo nonno?

Più che le parole o i gesti, la sua pignoleria. Forse per questo mia madre dice che sono come lui. Perché comunque era abbastanza esigente con i suoi uomini, quelli che lavoravano con lui, i 3 o 4 fidati. Dava anche tanto, ma quando c’era da lavorare, gli piaceva che tutto filasse liscio e ogni tanto si alterava. Le donne al suo fianco facevano una cucina molto basica, senza guide né libri di cucina. Mia madre preparava semplicemente ciò che le aveva insegnato sua madre. E cucinavano tutte esattamente nello stesso modo, anche se andavano a occhio e non c’era niente di scritto, le loro mani non si potevano distinguere.

Per le ricorrenze c’era un menu speciale?

Dopo la guerra sì, quando dalle città è iniziata ad arrivare un po’ di gente benestante, che il sabato e la domenica veniva in campagna per mangiare con le prime automobili. Ed era un pasto ricco, quindi tortellini e lasagne, mentre magari gli altri giorni c’erano solo due strichetti con un po’ di salsiccia. Un rito della domenica, che mi è rimasto ben impresso, erano le tigelle. Le facevamo sempre, ma la domenica pomeriggio tutta la gente del paese veniva a prenderle per mangiarle in giro o portarle a casa e le farciva con il pesto cotto, che era il condimento che andava per la maggiore. Adesso per assurdo non si fa quasi più, c’è solo il pesto crudo. Ma io mi sono divertito come Dispensa a ricrearlo nel vasetto. Gli ingredienti sono gli stessi: il lardo, il rosmarino e l’aglio che però vengono cotti, in modo che il grasso si scioglie, si alleggerisce un po’ e restano tanti cicciolini di carne aromatizzati. Più il Parmigiano grattugiato. Di queste me ne mangiavo un bel po’ anche io.

Eravate l’unico locale del paese?

No, ce n’erano tanti altri. Adesso sono 4 o 5, ma mi dicono sempre che un tempo ne esistevano il triplo, perché il paese era più abitato, c’erano 6000 abitanti rispetto ai 3000 di oggi. E la gente andava al bar o all’osteria perché comunque c’erano meno occasioni di uscire.

Cos’è successo durante la guerra?

Che si è proseguita l’attività con quello che c’era. Mio nonno, che era nato nel 1909, aveva già fatto il militare per alcuni anni, poi era rimasto a casa per un problema di salute. Ma a quei tempi gli incassi erano veramente ridotti, l’osteria era un mero punto di incontro per coloro che si trovavano ancora a Savigno.

Ti è stato raccontato dell’uso di succedanei, o degli effetti della battaglia del grano?

Mi hanno sempre detto che erano costretti ad arrangiarsi. Ma essendo in campagna qualche maiale lo ammazzavano sempre, e qualche gallina ci scappava fuori. Nei ricordi di mia madre Giuliana e di mia nonna Agnese, che è vissuta fino agli anni ’90, i succedanei erano legati a prodotti particolari, come il caffè. Non c’era un succedaneo della gallina che non fosse la gallina stessa, magari ce n’era solo una in meno. Oppure la povertà, le solite storie della saracca. Nelle case si trovavano a mangiare poche cose, e una polenta per venti persone veniva insaporita con un pesce secco. Ma erano esperienze che accomunavano tutti gli italiani in quegli anni.

E la resistenza?

Il fronte è rimasto fermo da queste parti, sulla linea gotica, dall’inverno del ‘44 alla primavera del ’45; c’erano i comandi tedeschi e la resistenza tutt’intorno. A me hanno raccontato le solite storie, legate a gente che spariva o partigiani che non si trovavano più. Soprattutto riguardo ai numerosi bombardamenti degli alleati scatenati alla fine. E mi dicevano che tutto sommato l’inverno era stato abbastanza tranquillo, a parte i movimenti partigiani. Il momento più critico fu quando i tedeschi cominciarono a capire che stavano arrivando gli americani; tutti erano sfollati dal paese, erano andati ad abitare fuori nelle frazioni e si nascondevano nei rifugi. E ci sono stati tanti morti. Il centro è stato molto colpito dagli attacchi aerei con lo sfondamento della linea gotica. Mio padre mi racconta sempre che quando aveva 12 anni i tedeschi l’avevano preso per fargli fare l’aiutante del barbiere che rasava i capi. Poi appena i tedeschi scapparono tutti, lui corse a casa per chilometri a piedi. E dopo la guerra è iniziata la trasformazione in trattoria.

Com’è avvenuta?

Subito, pianino pianino. La cucina è diventata un po’ più cucina ed è stata costruita l’abitazione sopra la bottega. Dove vivo io adesso, perché in casa mia la cucina non c’è. Il locale originario aveva un unico piano, ma nel ’53 mio nonno aggiunse il primo piano sopra, con una saletta TV come capitava in tanti locali a quei tempi. Era la prima del paese e i paesani venivano a bere e a guardare Lascia o Raddoppia. Poi nel ’59 costruì il secondo piano. Da una parte c’era la sua abitazione, dall’altra due camere della locanda per i primi villeggianti, che venivano da Bologna in estate per stare un po’ al fresco. Questi ospiti me li ricordo bene, perché erano sempre gli stessi, un po’ abitudinari. C’erano il maestro che veniva ad insegnare a Savigno ma non era locale, i carabinieri che erano privi di alloggio, le guardie forestali. Si piazzavano qui e diventavano un po’ persone di casa. Praticamente vivevano con noi, perché il bagno era in comune. Era un vero bed and breakfast.

In cucina non aiutavi?

Come no. Un altro dei compiti che mi affidava mio nonno era andare a prendere le trote, perché negli anni ’60-70 Savigno era famosa per la piscicoltura, poi la sorgente negli anni ’80 si è asciugata. Ma a quei tempi tutti facevano la trota a Savigno e c’era la famosa sagra della trota, che attirava un mare di gente. Mentre adesso non verrebbe più nessuno. L’allevamento si trovava a 500 metri dalla trattoria, ai piedi di una discesina. Mio nonno si faceva sempre una piccola scorta, ma poi capitava che arrivasse più gente del previsto e le trote erano da prendere al volo. Allora io partivo con la bicicletta nera di mio nonno e la borsa di plastica traforata blu, suonavo in casa e mi davano il pesce. Tornavo e lo pulivo. Un’altra cosa che mi piaceva moltissimo era andare a rane. Quando era il periodo giusto partivo insieme a mio padre e altre persone di notte con le fiocine e le lampade ad acetilene, un altro di quegli odori che mi piacciono, “carburo” come si dice in dialetto. Tornavamo alle 2 di notte, che per un bimbo era un’avventura, con i cestini pieni di rane e la mattina dovevo pulirle tutte. Cosa che non mi piaceva un granché, soprattutto perché mi venivano i calli a forza di decapitarle con le forbici che non tagliavano. Nel menu della trattoria c’erano sempre, e le tengo ancora, ispirandomi alla ricetta di mia nonna. Che le friggeva infarinate e le ripassava in umido, un po’ alla livornese, per servirle con le tigelle da tocciare. Mentre io tutto questo l’ho trasformato in un sugo per condire gli strichetti.

Col senno di poi, come valuti quella cucina?

Era una cucina di odori, di sapori, di cose vere, anche un po’ ingenua, ma forse bella per questo. Vado ancora a cercare locali così in giro ma non esistono più, e del resto non potrebbe più esistere questo modo di trattare gli alimenti, che era un po’ approssimativo. Credo che non si sia mai ammalato né avvelenato nessuno, ma adesso non sarebbe possibile. La cucina era minuscola, una decina di metri quadrati rispetto ai 25 che ho adesso. C’era un tavolo con la spianatoia sempre pronta dove si preparavano la sfoglia e le tigelle e altri due tavoli dove mangiavamo noi e i clienti delle camere, perché si accedeva dal retro. I fornelli erano a vista, con una vetrata in ferro di cui sto cercando le foto.

Cos’è rimasto immutato della cucina delle origini? La tigella per esempio è cambiata?

È sempre uguale, come tutte le ricette classiche, dalle lasagne al ragù, al ripieno dei tortellini e al brodo. Ma sono cambiate altre cose. Il sottovuoto per esempio è molto utile anche per fare tradizione, penso alla conservazione di una monoporzione di galletto alla cacciatora, che può essere rigenerata e servita come fresca. Mentre un tempo si cuocevano due galletti alla cacciatora e succedeva che al primo arrivava buono, al secondo troppo cotto e il giorno dopo era quello riscaldato. Adesso tutto questo non succede, ma la ricetta è ancora quella e i galletti sono solo migliorati. Ho fornitori locali molto bravi e gli animali da cortile vengono allevati per bene, non come facevano negli anni ’60-70, quando puntavano a ingrassarli in tutta fretta. Perché il mito dell’agricoltore mi piace, ma il contadino è anche un furbetto. Mi metto nei suoi panni: è stato sfruttato per millenni, è chiaro che adesso deve presentare il conto a qualcuno. Per questo è pericolosissimo come fornitore. Io per fortuna ho creato una rete di persone che sono affezionate alla terra, perché spesso hanno scelto di tornarvi, come io sono tornato alla trattoria. Quindi lavorano con consapevolezza e con criterio, in un clima di crescente attenzione sul cibo. Uno dei miei vecchi fornitori invece ha 90 anni , lavorava già con mio nonno e mi fa divertire moltissimo perché cerca sempre di fregarmi 100 lire.

Le ricette che hai citato non erano condizionate dalla povertà?

No, si componevano sempre degli ingredienti che occorrevano per farle bene, semplici ma giuste. Il ripieno del tortellino per esempio è sempre stato preparato con il maiale, il prosciutto, la mortadella e tutto quello che ci vuole.

E l’olio di oliva?

Noi ce l’avevamo sempre, non era quello di Brisighella ma veniva dal Meridione, era abruzzese credo. Lo portavano i carabinieri o le guardie forestali, quando tornavano dalle licenze. E in cucina me lo ricordo da sempre, insieme a tanto burro del caseificio. Una delle nostre ricette più classiche, che ho rifatto per il 75mo anniversario della trattoria, è la trota intera impanata con le erbe e fritta in un extravergine verde scuro, così profumato che sovrastava anche il pesce. Ma era un piatto “tanto di tutto”, generoso.

C’era una capacità di innovare, quindi, in questa cucina.

Certo l’olio era “fusion”, sebbene in origine fosse prodotto anche in zona, poi con le gelate del 1700 gli ulivi erano spariti e adesso li stanno ripiantando. Ma secondo me era un po’ un caso, nel senso che si ritrovavano la bottiglia in dispensa, mentre gli altri savignesi non ce l’avevano perché non avevano le camere.
Mio nonno ammazzava anche 2 o 3 maiali l’anno. Li cresceva con gli avanzi dell’osteria dietro il campo da bocce, negli spazi fino al fiume dove teneva l’orto, la porcilaia, i conigli e i galletti. Ho ancora il tavolo dove faceva i salumi, il numero 6 nella sala di sopra. Io gli davo una mano ma di malavoglia perché c’era troppa umidità. Preferivo il vino e col tempo ho iniziato a fare i corsi da sommelier, sull’onda dei ricordi. Mentre oggi se ci penso la mia passione principale sono i cibi e le materie prime, ed è una passione che è venuta dopo, con più consapevolezza.

Che salumi faceva tuo nonno?

Un po’ di tutto, mentre noi ci limitiamo alle salsicce e alla coppa di testa, visto che utilizziamo molti maialini e le teste avanzano. Lui macellava maiali rosa, mentre noi facciamo tutto con la mora romagnola di Cà Lumaco. Ed è una carne nettamente superiore, tratta da animali più difficili, grassi ma di grandissima qualità. Ho insistito molto qualche anno fa affinché Ferri iniziasse ad allevarli nei suoi 50 ettari di bosco e di prato. E secondo me i salumi sono strepitosi. La nostra norcineria in generale sarà povera dal punto di vista mediatico, ma regge il confronto con i prodotti top. Anche se costa cara, perché una mora partorisce 3 o 4 maialini anziché 12, una volta l’anno anziché 2 e la mortalità è elevata.

È il classico caso in cui la gastronomia è cresciuta perché è cambiata la materia prima, e insieme ad essa la consapevolezza delle persone. L’autoproduzione non ti interessa?

Due anni fa ho rifatto l’orto un po’ per scherzo, piccolino però. Ma dall’anno prossimo l’idea è quella di ingrandirlo per bene. Quello di adesso è veramente casalingo, lo uso per il ristorante. Ma mi rifornisce in abbondanza, di zucchine e fagiolini me ne dà anche troppi. E quando butta butta. Lo coltivo senza nulla, con meno acqua possibile per favorire la concentrazione. Le varietà sono locali, ma non ho fatto chissà quali selezioni. Perché è un orto di transizione, di allenamento per così dire. Ci stiamo dietro io e la mia compagna Marina. A me piace raccogliere, mentre lei preferisce zappare. Ed è molto divertente. Per gli animali invece non c’è abbastanza spazio.

Il terreno conferisce caratteristiche particolari agli ortaggi?

Non direi, sono buoni come altrove. Le altre verdure le compro dalla Sega, azienda agricola Battistini. Sono verdure biologiche al 100%, belle e di qualità, perché si tratta di contadini consapevoli, della mia età o anche più giovani, che hanno scelto questo mestiere. Compongono un piatto che propongo tutto l’anno, ma cambia ogni giorno; adesso l’ho trasportato sul fungo assemblando diverse varietà di stagione. Per il tartufo invece è un anno perso, ne arriverà un po’ prossimamente ma sarà scarso. E i tartufi che ho visto finora sono brutti e secchi perché sono cresciuti in un terreno troppo duro, la pioggia è penetrata solo di 1 cm e sotto è cuoio, quindi non si sono sviluppati bene. Profumano abbastanza ma non durano, perché il calore della terra li ha cotti e sono già vecchi.

Un flashback sulla tua storia personale, a questo punto. Tu sei cresciuto con una memoria sensoriale importante, i riti e i tempi di una trattoria in simbiosi con la civiltà contadina.

Sì, ma erano diventate abitudini, e come tutte le abitudini mi sono venute a noia. Quando hai 15 o 16 anni forse hai voglia di fare anche altro. La mia fortuna è stata quella di stancarmi. Quando facevo le superiori se c’era da dare una mano nel fine settimana lo facevo, non molto volentieri a dire il vero, perché preferivo la cantina piuttosto che stare dietro al bancone o fare il cameriere. Ma volevo conoscere il mondo e il militare doveva essere l’anno dei ripensamenti. Però è successa una cosa strana, anche per colpa di qualche disgraziato che ho incontrato. Si trattava di commilitoni più anziani, che avevano già fatto l’università. Abbiamo provato repulsione verso la cucina della caserma e abbiamo comprato la seconda guida dell’Espresso, quella del 1980. Così abbiamo girato tutti i ristoranti del Friuli Venezia Giulia con la mia macchina, mentre a pranzo mangiavamo le cose che ci portavamo da casa, formaggi, salumi, torte liguri. E siamo costati molto ai nostri genitori, mia madre continua a rimproverarmi di avere speso 5 milioni in ristoranti. Non sarà stata un’illuminazione, ma ho visto tanti locali, più o meno eleganti, e tanti di quelli semplici mi sembravano come il mio, ma con una professionalità appena superiore, uno spirito leggermente più culturale. Per esempio il menu scritto o la scelta dei vini. Lo constatavo quando in licenza tornavamo a Savigno e facevamo i paragoni con i ristoranti friulani. Questo l’ho messo in saccoccia, ho cominciato a metabolizzare e ad entrare in confidenza con una ristorazione che non era più solo casa e cucina, oltretutto in una zona di vini importanti. La cosa che mi dispiace è che non ho più quella guida, perché accanto alle insegne segnavamo il nostro punteggio, e talvolta mi accade di tornare in quei posti.
Alla fine mi è passata la voglia di iscrivermi ad Architettura, ma non sapevo bene che fare. Ed è successo un altro incontro imprevisto. Quando non c’era niente da fare, mia madre il pomeriggio faceva la magliaia e una cosa che mi veniva bene era disegnare le maglie, scopiazzando i giornali. Compravo la lana, disegnavo, lei eseguiva e poi rifinivamo. Ne ho fatte 4 o 5 che portavo. Un giorno un signore che aveva un’azienda importante, il fondatore del marchio Carla G, lontano parente di mio zio, si è fermato da noi e mi ha chiesto che maglione fosse. “L’ho fatto io”. “Come l’hai fatto tu? Non ti piacerebbe lavorare con me nella moda?”. “Perché no?”. Così ho iniziato a fare il rappresentante in Veneto e in Trentino Alto Adige. Scortato dalle guide, partivo il martedì e tornavo il venerdì. E ho cominciato a battere tutti i ristoranti, ma anche le osterie, che mi piacciono tuttora. Anche se è più difficile trovarne di buone, perché quelle che fanno la tagliatelle al ragù magari ci mettono la farina che viene dall’Ucraina, il pomodoro cinese e la carne congelata argentina. Quindi è una ricetta tradizionale ma le materie prime tradizionali non sono, ed è la cosa che mi scoccia di più.

Neanche le tue materie prime sono “tradizionali”, però.

Sì, ma sono locali, ed è la cosa più importante. Per un certo tempo, comunque, ho portato avanti entrambi i discorsi, la moda e il cibo, con i titolari ho iniziato a girare per sfilate anche all’estero, da Parigi a Londra, a New York, e a organizzare per loro la parte gastronomica. Così vendendo e comprando stracci è cresciuta la passione per il cibo. Fino a che mia nonna, mia madre e mia zia non hanno detto: “Noi alla fine del 1987 ci ritiriamo. Nessuno ha voglia di comprare, chiudiamo”. E ho cominciato a ragionarci. Allora avevo una fidanzata che faceva un lavoro che non le piaceva, la parrucchiera. Sua sorella era cuoca e abbiamo deciso di provarci. Siamo partiti in 3 e adesso siamo in 10 a gestire gli stessi coperti.

Hai scelto la linea della continuità fin dall’inizio?

Sì, solo ricette tradizionali, anche perché mia mamma e mia nonna continuavano a venire. I miei hanno chiuso a Natale del 1987 e dopo qualche mese di lavori abbiamo riaperto, senza il bar al piano terra. Il primo giorno ho esordito con la carta dei Colli Bolognesi, che era veramente una carta, cioè un foglio con il nome di 20 etichette. Poi con la fama crescente della trattoria ho deciso di ampliare l’offerta dei vini. Dopo un paio d’anni di training ho capito che mi mancavano le materie prime, perché non ne avevo abbastanza e non su tutti i fronti. Quindi ho cominciato a convincere contadini e allevatori a lavorare in un certo modo. Erano cose che non mi aveva insegnato nessuno, ma le avevo captate frequentando i corsi, seguendo Slow Food o leggendo le riviste di cucina. Pian pianino sono riuscito a crearmi questa rete di fornitori, che mi hanno portato a una cucina localizzabile. Entrando in possesso di materie prime interessanti, nei primi anni ’90 sono arrivate anche le prime ricette creative, quasi un obbligo avendo certe cose per le mani. Come aprire il frigo e cucinare quel che trovi, senza escludere le tecniche moderne e giocando con gli accostamenti. Eravamo tutti autodidatti, ma senza complessi. Perché non abbiamo mai mirato in alto, quello che è venuto è stato spontaneo, non lo abbiamo mica cercato. Compresa la stella Michelin, che per un certo tempo ha convissuto con il bib gourmand, cosa che all’epoca era un po’ un controsenso. Siamo stati il primo locale di questo tipo a essere premiato dalla guida rossa, credo. Quando mi arrivarono i telegrammi di Marchesi e di Gaja pensai subito a uno scherzo.

Vedi una relazione con la bistronomia contemporanea?

Non direi. La bistronomia mi piace molto, a Parigi come a Londra è bello mangiare piatti semplici ma ricercati in un’atmosfera informale. Ma è un fenomeno metropolitano, che ha senso solo in un determinato contesto. Mentre il territorio è praticabile ovunque. Lo dimostra Eataly a Bologna, che si approvvigiona dai miei fornitori, dal mercato circostante e dai produttori dei presidi Slow Food.

Il tuo orizzonte è apertissimo. Come mai non ti sei mai fatto contagiare dalla nouvelle cuisine o dall’avanguardia?

Forse perché non ho mai avuto cuochi che mi istradassero in quella direzione. E non li ho mai cercati, come non ho mai cercato nulla. Sono molto fatalista in queste cose. Chissà cosa avrebbe potuto succedere, se fosse capitato da me un Bottura. Devo dire che ho sempre preferito lavorare con gente della zona, perché ho sempre creduto che chi viene a lavorare a Savigno da molto lontano, prima o poi si stancherà. Quindi la mia è una brigata stanziale e quello che sta più lontano, la mattina fa 15 chilometri. Poi con i cuochi della zona è più facile comunicare, perché c’è un codice del gusto comune con chi è cresciuto a tigelle e crescentine. Capisce quando una cosa è giusta o sbagliata molto prima di un giapponese.

Preferisci lavorare con cuochi di sesso maschile o femminile?

È indifferente, ma credo che in ogni brigata ci voglia una cuoca, perché serve a calmare gli animi, evitando che si crei un clima da caserma. E la sfoglia la fa ancora mia madre con altre 3 signore della stessa età, che mi diverto a mandare in giro per il mondo a fare le serate quando mi chiamano. Anziché andare a Lourdes vanno a Tokyo o a Zurigo. È una brigata acrobatica.

Il tema di Enologica quest’anno è la patria.

Faccio un po’ fatica a parlare di patria, perché è una parola che non mi appartiene; sebbene non mi sia mai spostato da Savigno, posso sentirmi a casa anche a New York e provare un sentimento di condivisione con gente che arriva da lontano. La patria non è un fatto geografico e non è necessariamente il luogo in cui sono nato, ma è un modo d’essere e rappresenta l’insieme nel quale mi riconosco, con le mie abitudini di pensiero, di comportamento, di stile di vita. La patria è lo stato interiore ed il paesaggio familiare che mi fa sentire a mio agio e a casa, ovunque nel mondo.

E la patria in cucina cosa diventa?

La cucina italiana non esiste assolutamente se non all’estero. Ci sono tanti piccoli territori che possono svilupparsi se gli uomini lo vogliono, a Savigno come altrove. Per quanto riguarda i vini, invece, sono fiero di avere lanciato i Colli Bolognesi, che oggi sono presenti nelle carte di tanti ristoranti. Anche se c’è un problema qualitativo, perché molti inseguono modelli anacronistici. Secondo me non hanno viaggiato, mentre il viaggio è importantissimo.
Recentemente ci sono stati due eventi che mi hanno un po’ riconciliato con questo concetto. I 75 anni del ristorante, in occasione dei quali ho offerto un pasto a tutti i settantacinquenni nel teatro del paese. E “A cena con i rivoltosi”, un evento bellissimo che abbiamo tenuto in piazza il 15 agosto, in ricordo dei moti rivoluzionari della giovine Italia, con i droghieri e i macellai di Savigno. In seguito alla repressione del 15 agosto 1843, agli atti processuali sono stati trovate le testimonianze di 2 carabinieri pontifici presi in ostaggio, che hanno riportato giorno per giorno quello che avevano fatto durante la fuga sulle colline. Quindi abbiamo fatto un menu composto di quei piatti, che erano poi galletti, tagliatelle con il prosciutto rancido, pane e salame.

Come potresti descrivere il tuo territorio?

Direi che è molto bello, lo sto riscoprendo dal punto di vista paesaggistico, dopo le ricognizioni gastronomiche. Mi piace fare lunghe passeggiate a piedi, una volta alla settimana, per poterle riproporre agli ospiti della locanda. Ed è un paesaggio che cambia. Adesso c’è più verde, si sta rimboschendo, mentre nel dopoguerra era completamente brullo. Le case coloniche abbandonate sono di nuovo abitate. Gli animali stanno tornando: volpi, tassi, istrici che non avevo mai visto da bambino. Gli agricoltori e gli allevatori stanno operando in modo sempre più consapevole. È un circolo virtuoso di cui Amerigo vuole rappresenta un anello. Però non sono così campanilista, da pensare che questo luogo sia migliore degli altri. La sua unicità è che è il nostro, perché il territorio lo fa l’uomo e allevare collaboratori è stato il lavoro più difficile in assoluto.

Che piatti porterai a Faenza?

Una selezione dei miei antipasti più classici: tigella mignon ripiena di gelato al Parmigiano, calzagatti avvolti nel lardo di mora romagnola e battuta di bianca modenese. Poi le lasagne con la zucca e la selvaggina, un piatto affatto tradizionale ma molto locale, che illustra bene la mia filosofia del territorio e il lavoro che porto avanti sulla filiera. Faccio fatica a parlare del chilometro zero, visto che lo faccio; e di solito a parlarne è chi non lo pratica. Dico solo che ciò che c’è qui è unico e può essere mangiato solo da noi, quindi per uno straniero vale moltissimo ed è un concetto su cui ragionare. Il senso vero della localizzazione.
Altre cucine si fondano sulle tecniche e non sul prodotto, ed è una scelta legittima. Come quella di Ferran Adrià, del quale sono stato un cliente entusiasta. Con l’eccezione delle tagliatelle alla carbonara con estratto di sintesi di tartufo, che ho mandato indietro due volte. Gli altri piatti me li ricordo ancora, così come ho in testa un piatto di gnocchi con il capriolo che ho mangiato durante il militare nel Collio in una trattoria che aveva 12 ventesimi sulla guida dell’Espresso. Quindi per me Ferran Adrià vale come la più scarsa delle cuoche di campagna, che però azzecca un piatto e quello lì lo fa benissimo. Io sono laico, non mi interessano le bandiere. Una grande cipolla vale come un grande tartufo, una tagliatella giusta come un capolavoro d’avanguardia.

(Alessandra Meldolesi)

1. Continua