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Cosa impari dallo stage al ristorante Oliver Glowig a Roma

giovedì, 22 Settembre 2011 di

La mia storia va così: un’americana che, ispirata da uno chef spagnolo, decide di passare la sua estate con un tedesco in Italia. Tutto chiaro? C’erano tanti fattori che mi hanno spinto a trascorrere la mia estate nella cucina di Oliver Glowig, ma tanti erano legati a un’esperienza importante che mi è capitata mentre vivevo a Barcellona quest’anno. Sono andata alla prima del documentario El Bulli: Cooking in Progress, che dà uno squardo behid-the-scenes a quello che Ferran Adria stava facendo negli ultimi venticinque anni: cucinando.

Anzi, di solito Adria assaggiava i piatti preparati dai suoi chef. In ogni caso, mi ha fatto pensare nuovamente alla figura del “grande chef” che viene costruita dai media e che non ha niente a che fare con le situazioni reali e alle strutture complicate che esistono nell‘alta cucina. Nello stesso periodo, mi è capitato di leggere un articolo su chef Glowig, pubblicato quando era al famoso ristorante L’Olivo a Capri. Quando l’ho letto, guardando le foto della bellissima sala e dell’albergo, mi chiedevo soltanto come sarebbe stata la cucina, all’interno. Cioè volevo provare, di persona, le dinamiche e l’organizzazione che esistono in un’alta cucina che merita due stelle Michelin. Così, quando ho scoperto che lo chef stava per aprire il suo nuovo ristorante all’Aldrovandi a Roma, sapevo cosa avrei dovuto fare. Gli ho scritto una lettera spiegando le mie esperienze e il mio interesse per uno stage nella sua cucina. Qualche settimana dopo mi ha contatto l’albergo con la buona notizia e ho preparato le valigie per un’estate a Roma.

Il mio primo giorno in cucina dallo chef Glowig è stato eccitante e terrificante allo stesso tempo. L’unica donna (americana) in una cucina tra tanti uomini (per la maggior parte napoletani… ormai anche lo chef lo è). Mi sono chiesta se sarei riuscita a sopravvivere. E infatti, ecco subito una sfida non prevista: la comunicazione. La possibilità di avere problemi con la lingua non mi era neanche venuta in mente dopo quasi quattro anni in Italia. Ma a volte, nel frenetico flusso della cucina, mi sono trovata in difficoltà a comprendere non soltanto il dialetto, ma anche l’italiano.

Ho dovuto anche abituarmi al livello di perfezione che improvvisamente mi ha circondato. Passare dalla cucina di casa a quella di chef Glowing è come cambiare una vecchia Fiat per una Maserati. Nel mio caso, ho scoperto che il passaggio alla perfezione non è stato facile come mi aspettavo. I miei cubetti minuscoli di verdure erano troppo grandi per la brunoise e le mie verdure tournée sembravano tagliate con una scure.

La prima volta che ho usato la centrifuga ho dimenticato di svuotare la macchina che, straripando, ha provocato spaventose nuvole di fumo (per fortuna, lo chef non è stato testimone di questo evento). Tuttavia, ogni volta che ero convinta di aver fatto un errore imperdonabile, i ragazzi in cucina mi confortavano con un “Succede, Cait. Non ti preoccupare, la prossima volta andrà meglio.” Almeno in questo sono stata fortunata.

Infatti sono migliorata. Dopo la prima settimana ero decisamente più rilassata e in grado di lavorare con facilità. Finalmente sono riuscita a concentrarmi sui piatti dello chef, che avevo imparato a memoria prima di arrivare ma che avevo dimenticati in mezzo al caos dei primi giorni. Sono stati inseriti nel menu dell’estate piatti che lo chef prepara da anni (e che gli hanno permesso di guadagnare la seconda stella Michelin al Capri Palace) come il suo piatto firma “i miei ricordi di Capri”, ravioli ripieni di caciotta e maggiorana in salsa di pomodori.

Oltre alla trippa di baccalà con caviale, pancetta croccante, ricotta e fave, lo chef proponeva antipasti come la mozzarella di bufala, fassona al coltello e acciughe, abbinamento interessante e gradevole al palato. Poi c’era il cotto e crudo di verdure con caviale di melanzana e fiori freschi, la cui bellezza mi ricorda il famoso “gargouillou” di Michel Bras (forse un omaggio a Bras e all‘Italia?).

Il menù riflette anche l’ispirazione che Roma porta allo chef. La sua versione del cacio e pepe, un piatto della tradizione romanesca, con eliche e ricci di mare, o i suoi tortelli alla coda di vaccinara in una salsa alla liquirizia, sono ottimi esempi del fusion di tradizione e di innovazione che caratterizza non soltanto la cucina di Glowig, ma anche quella di tanti grandi chef di oggi in Italia.

Uno dei miei piatti preferiti era il tonno rosso con fagiolini, provola affumicata e pancetta. Il tonno, farcito con qualche striscia di provola, è servito su un letto di puree di fagiolini e tapioca, accompagnato da un involtino di fagiolini, pancetta e pane. Ho subito apprezzato questo piatto per l’uso intrigante della tapioca, perle di amido estratte dalla radice della manioca, una pianta del Sud America. Le perle non hanno nessun sapore, ma danno consistenza e sostanza agli alimenti cui si accompagnano. E quale modo migliore per esaltare il semplice sapore di fagiolini appena raccolti? In Italia è raro incontrare la tapioca. In America, invece, è molto diffusa e viene anche incorporata in una specie di budino dolce che io mangiavo spesso da piccola. La preparazione dei tubi di fagiolini, pancetta e pane (che ho avuto il piacere di fare in così tante occasioni) richiedeva che i fagiolini fossero sbollentati, aperti, svuotati dei loro chicchi di grande dimensione, poi pesati, misurati, tagliati, e pesati una volta ancora … rendendo ogni piatto uguale a quello successivo. Come per la tapioca, il risultato è attraente, delizioso e armonico al tempo stesso. La pancetta completa il gusto leggermente fumoso e affumicato della provola, mentre il pane e puree con fagiolini aggiungono un aspetto croccante alla tenerezza del pesce.

Il piatto preferito dello chef rimane la triglia, prima servita con fegato grasso d’oca e fave, sostituite, in estate, con patate schiacciate, midollo gratinato e fichi in una salsa di ribes nero. E’ stato decisamente uno dei secondi piatti più richiesti di quest’estate (e per me il più bello). Nella cucina di Glowig, l’uso di ingredienti principali di prima qualità, preparati con la massima attenzione e presentati squisitamente dà un nuovo significato al concetto di mangiare con gli occhi.

La chiusura di molti ristoranti romani, nel mese di agosto, ha permesso a Glowig di approfittare di questa stagione desertica e di usarla a proprio vantaggio.

Con il ristorante aperto, ha anche introdotto qualche piatto nuovo, come il risotto con insalata di mare, ostriche e seppie al profumo di bergamotto e nero di seppia. Nel frattempo ha cominciato a sperimentare il menu dell’autunno.

Il vero talento dello chef è emerso durante questo periodo di creazione. Dopo il successo di un’apertura molto anticipata, è riuscito a tirare un respiro profondo e a riflettere per un attimo prima di guardare avanti. Con il sous-chef Domenico Iavarone al suo fianco (lo è stato per gli ultimi otto anni), “giocavano” con i primi ingredienti previsti per la prossima stagione. Iavarone, naturalmente, era “taste-tester” ufficiale durante queste prove.

In una sera particolarmente “gustosa” sono arrivata in cucina mentre lo chef stava preparando un piatto a base di dragoncello, zucca e funghi, trombette della morte, in un fondo di coniglio. Dopo solo uno sguardo al piatto avevo già fame. Poi, stranamente, ho avvertito una grande nostalgia di Portland, la mia città, che è assolutamente bellissima nel mese di ottobre. Non avevo nemmeno bisogno di gustare la dolcezza della zucca o la ricchezza dei funghi per provare questa nostalgia proustiana. Sono rimasta impressionata da come questo singolo piatto abbia potuto evocare molto più di una semplice fame fisiologica. Questo è uno dei tanti motivi per cui Oliver Glowig è uno chef straordinario.

Nell’ultima settimana del mio stage lo chef mi ha dato il suo permesso di fotografare in cucina e persino di fargli qualche domanda. E siccome porre domande è una mia capacità indiscutibile, ne ho appuntate tante: dalla sua più grande fonte di ispirazione a quello che mangiava con la sua famiglia. E Oliver Glowig rispondeva sempre con la sua solita gentilezza e sincerità. Quando ho chiesto quale è stato il suo più grande cambiamento a Roma, ha detto che è stato senza dubbio il passaggio da impiegato a gestore. “E’ completamente diverso, ci sono ovviamente molte altre cose che devono essere prese in considerazione”.

L’essere proprietario del ristorante, oltre che chef, ha anche permesso a Glowig di prendere alcune decisioni importanti, come quella recente di assumere il pasticcere francese, super-talentuoso, Thierry Tostivint. Io ho dimostrato la mia approvazione per questa sua decisione inventando appena possibile una scusa per andare in pasticceria, dove Thierry mi offriva un assaggio del suo famoso fudge al cioccolato accompagnato da qualche riflessione interessantissima sulla storia della gastronomia.

“Volevo assumerlo prima, ma quando ero chef del Capri Palace non riuscivo sempre a prendere tutte le decisioni io. Ora il ristorante è mio, e se voglio portare qualcuno davvero eccellente, posso farlo”, rammenta Glowig. E Roma sicuramente lo ringrazia.

Il mio tempo trascorso in cucina da chef Glowig ha superato le mie aspettative. Ho visto il talento di un grande chef e non l’ho solo osservato, ma sono diventata una parte della struttura importante che consente di servire i suoi clienti sera dopo sera. Ho apprezzato questa struttura, che è di solito trascurata o sottovalutata nella rappresentazione dei grandi chef. Una parte essenziale di questa struttura era Iavarone, colui che faceva in modo che ogni aspetto della preparazione fosse all’altezza delle aspettative dello chef e curava la lista infinita di cose da fare per gestire il ristorante in modo efficiente. Ed ha anche dimostrato di essere uno chef eccellente. Poi c’erano i giovani chef che trascorrevano ore infinite in cucina ogni giorno, la cui dedizione al loro chef era dimostrata dalla attenzione a ogni singolo dettaglio – dalla pulizia delle loro stazioni alla preparazione degli ingredienti. Il lavoro di Daniele Corona, Gioachino Attianese, Salvatore Soldano, Francesco Soldano ed Emilio Antonuccio era quindi indispensabile per il successo già al debutto di Oliver Glowig a Roma.

Una cucina professionale è un mondo a sé. Un microcosmo, come una volta ha scritto Gualtiero Marchesi. Avrei difficoltà a trovare un’altra parola che così accuratamente descrive questo ambiente. E’ un microcosmo, non solo per il fatto che contiene una rigida serie di gerarchie e procedure, ma anche perchè è l’epitome della creazione culinaria. Ogni cucina – ognuno di questi microcosmi – portano culture, metodi e storie diverse. Non tutti assomigliano alle descrizioni scritte da Anthony Bourdain o alla trasmissione di Gordon Ramsey, ma sono interessanti lo stesso. Grazie ai due mesi che ho trascorso nel microcosmo di chef Glowig posso dire che dietro ogni grande chef si trova un mondo che merita molto di più la nostra attenzione.

Versione inglese

Caitlin Junkin è una giornalista americana che sta seguendo un master in storia e cultura dell’alimentazione all’Università di Bologna diretto da Massimo Montanari. (V.P.)

(Big Picture: le foto possono essere ingrandite cliccando sull’immagine)