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Neo bistrot vs osteria: la cucina della tradizione muore in 10 punti

mercoledì, 14 Agosto 2013 di

svinando

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Il bistrot 2.0, l’osteria contemporanea, la gastro-trattoria, il low cost di qualità spopolano. Dalle più gettonate trattorie nostrane (ne abbiamo messe in fila 20) al gastro pub di Edimburgo “figlio” di ristorante stella Michelin per arrivare ai prototipi francesi che sono “proprietari” della parola bistrot e con essa hanno scalato l’olimpo delle classifiche mondiali. Come lo Chateubriand insegna. O sono diventati  modello di riferimento per mezza Europa come ricorda Septime cui tutti i gourmet associano la parola bistronomie.

Solo che ora il troppo storpia. I bistrot 2.0 stanno ammazzando i bistrot veri, quelli era pre-internet. Almeno questo è  il grido di allarme lanciato dalle pagine di Paris by Mouth, la guida ai ristoranti parigini in lingua inglese. Che, dati alla mano, avverte: è diventata un’impresa assaggiare un boeuf bourguignon o un cassoulet come dio comanda.

Sembra quasi di essere a Roma o a Milano e ascoltare i ricordi di gastronauti d’antan: non c’è più una carbonara, un’amatriciana o un risotto, una cotoletta che valga non dico un viaggio, ma almeno una deviazione.

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E’ più agevole trovare un ristorante italiano o giapponese che assaggiare i piatti della buona tradizione francese, precisa Alexander Lobrano e la parola magica è: sostituzione. Arretra il bistrot (quello con i merletti alle finestre, la tovaglia a quadretti e il coq au vin nel menu, per intenderci) mentre avanzano le cucine etniche, internazionali, le mode del momento, il pranzo veloce e il conto leggero. Succede in tutte le grandi città, avverte Lobrano solo che mentre a Londra o in America lo sbarco di nuovi format ha trasformato insipide patrie gastronomiche in interessanti destinazioni, a Parigi la mutazione si è tradotta in una sottrazione.

Forse perché a Londra e in America non c’era molto da sottrarre? Troppo semplice e la diagnosi che segue potrebbe delineare, per l’Italia, un inquietante scenario futuro di desertificazione gastronomica (o il futuro è già qui?)

In dieci punti, ecco i motivi di una disfatta. E di una rivincita possibile per le gastronomie che hanno una tradizione da vendere (e difendere).

  1. Pranzi d’affari (esistono ancora?). La migrazione delle aziende fuori Parigi, alla ricerca di spazi più moderni, ha sottratto alla Ville Lumière gli incontri business con i piedi sotto il tavolo. In debito di PDG (Président Directeur Gèneral) Parigi si è convertita a un’offerta gastronomica più cheap e più veloce.
  2. Celebrity chef (con tanta voglia di stupire). La nuova generazione dei top chef antepone l’espressione creativa alla tradizione, opaca e massificante (per loro).
  3. Patron dal braccino corto (e zero in nazionalismo). Lo scempio si compirebbe con la complicità dei ristoratori che preferiscono, per ovvie e sbrigative questioni economiche, ricette di facile preparazione.
  4. Camerieri senza qualità. Il risparmio arriva anche dal versante costi del personale. Non c’è bisogno di uscire da qualche blasonata scuola di cucina per preparare una …. esotica insalata di pomodori e mozzarella.
  5. Dukanisti e pure trendy. Attenzione alle calorie e infatuazione crescente per i locali stilosi fanno il resto. Nella pausa pranzo è di rigore il pasto leggero tra quattro mura glamour.
  6. Giovani di bocca buona. Non potete certo pretendere che un Parigino giovane cerchi la qualità quando per anni due genitori carrieristi hanno disertato la cucina. E con le papille anestetizzate, un coq au vin ha l’appeal di una torta di nonna Papera.
  7. Tutta colpa degli hamburger. Un’autentica follia collettiva, facili da preparare e veloci da consumare. Una combinazione irresistibile per il ristoratore. Che poi se li fa pagare cari quando te li propina nella versione gourmet.
  8. Stessa sorte per il caffè. La moda dell’hamburger ha contagiato un’altra istituzione francese, e non c’è bisogno di scomodare il Café de Flore. Panino di carne, insalate e patate fritte rosicchiano spazio alla ristorazione informale spodestando il mitico “jambon beurre” e la nostalgica quiche.
  9. Tasse, tasse, tasse. E’ colpa anche delle gabelle se chi investe in ristorazione cerca il risultato facile.
  10. Mosche bianche e cavalieri solitari. Si chiamano Terroir Parisien  e Allard le imprese in controtendenza che lasciano intravedere la luce fuori dal tunnel (ma un’aria simile si respira anche in pasticceria). Il primo è il bistrot dello chef Yannick Alleno, il secondo è il gioiello appena rilevato da Alain Ducasse a Saint-Germain-des-Près. Nostalgia al potere, coq au vin e zuppe di cipolla come se piovesse.

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Provate a cancellare i riferimenti Francia e bistrot e inserite Italia e osteria per chiedersi quanti di questi 10 punti sono già realtà al di qua delle Alpi.

Le grandi trattorie italiane hanno un occhio rivolto al passato o sono preoccupate di non restare indietro pena l’estinzione e sono disposte a sacrificare la parola tradizione sull’altare del nuovo business?