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Risotto alla parmigiana: la ricetta scientifica in 5 punti

domenica, 18 Novembre 2018 di

Risotto alla parmigiana. Sì, avete letto bene, io campano e convinto pastaiolo, amante delle cotture lunghe e delle verdure ‘mbuttunate alle prese con uno dei piatti simbolo della cucina del nord.

Nonostante la quasi sempre ridottissima presenza al sud sugli scaffali di GDO e non, ho sempre apprezzato molto il riso, piacevole compagno di tanti pranzi casalinghi della mia gioventù, con la mamma (vera artefice della mia conoscenza in materia) che lo preparava, tenendo sempre abbastanza al dente il chicco (arborio), nei più svariati modi: al sugo, al burro, al burroesugo, con le verze, con la zucca, con i fagioli, eccetera. E chiaramente anche in versione risottesca.

Il vivere nel capoluogo lombardo ha molto aiutato la mia conoscenza “culinaria” dei chicchi della pianta erbacea più nota al mondo.

Insomma risotto sia, qui nella versione alla parmigiana.

Quella probabilmente più semplice, ma non per questo più facile, perché, come per la preparazione di un piatto di spaghetti al pomodoro, dietro la preparazione di un buon risotto si nascondono mille insidie.

Certo è che un buon riso, un burro di qualità ed un Parmigiano Reggiano di buona stagionatura fanno, come si suol dire, metà dell’opera.

E se per il ragù napoletano avevo raccontato delle innumerevoli differenze nelle varie versioni casalinghe, per il risotto la ricetta risulta abbastanza “codificata”.

Non troveremo mai chi lo prepara con l’olio al posto del burro, per dire. O piuttosto con un riso parboiled (orrore) al posto del carnaroli, arborio o vialone nano. Per non parlare della “tostatura”, l’immancabile operazione necessaria per la resa finale.

Però ci scontreremo con qualche vecchia “tradizione” che io, da buon eretico, mi preoccuperò di smontare al solo fine di migliorare la ricetta.

La ricetta scientifica del risotto alla parmigiana

Ingredienti (per 4 persone)

400 g di riso carnaroli
½ cipolla tritata finemente
60 g di burro
80 g di Parmigiano Reggiano grattugiato
Un litro di brodo di carne accuratamente sgrassato
Un Bicchiere di vino bianco secco
Sale q.b.

1. Il brodo

ragù ricetta

Impossibile, sì. Proprio impossibile. Almeno così dicono gli esperti.

Senza brodo non farete mai un risotto (sempre gli esperti), ma sarebbe meglio dire un “buon” risotto, soprattutto in questo caso.

Io però, da buon”eretico”, credo a prescindere nell’acqua calda, qui, al massimo, con una buccia di parmigiano messa in infusione.
Certo il risultato sarà più neutro, ed alla fine non avremo alcuna sensazione “carnosa”, che poi non a tutti piace.
Sarà però maggiormente “personalizzabile”, essendo a quel punto molto più facile intervenire con una riduzione, un pesto, un aceto balsamico tradizionale, un ragù e così via.
Comunque sia, qui cercheremo di restare, fin dove possibile, il più vicini alla tradizione, qualunque cosa essa significhi. (resto fermamente convinto che seguire la cosiddetta tradizione non comporti necessariamente avere un piatto ben fatto)

Ecco quindi una pentola larga, almeno di media altezza.

Un buon pezzo di biancostato di reale, quello che a Napoli chiamano corazza ed a Roma spuntatura, ricco di venature grasse nella carne e con un bel po’ di osso attaccato.

Insomma una garanzia per l’ottima riuscita del brodo di carne.

Poco sedano e poca carota, al massimo un quarto di cipolla, il tutto tagliato a pezzi grossolani, acqua fredda, no sale, rigorosamente.

Portiamo ad ebollizione, regoliamo il fuoco al minimo, e copriamo a ¾, ovvero lasciamo sfogare il vapore abbastanza liberamente, almeno per un’ora.

Dopo adeguato riposo, anche di una notte, lo filtreremo almeno un paio di volte, al fine di sgrassarlo il più possibile.

2. Soffritto e tostatura

Ed eccoci arrivati al primo “scontro” con la tradizione.

Sfido chiunque di voi a trovarmi in rete qualche ricetta di risotto che non inizi con la solita, fatidica, formula: tritare una cipolla, rosolarla a fuoco basso, unire il riso, tostarlo e poi sfumare con il vino…

Sisì, proprio quella formula lì, che a me pare completamente sbagliata.

Da un lato dobbiamo soffriggere la cipolla (in modo delicato, a fuoco bassissimo), e dall’altro tostare il riso, cosa da fare a temperature piuttosto alte (almeno 140°).

Insomma, o facciamo bruciare la cipolla, o “riscaldiamo” appena appena i chicchi di riso.

Abbiamo però deciso di restare vicini al vecchio (e secondo me poco corretto) metodo di preparazione, cercando però di mettere una toppa.
A venirci in aiuto è Allan Bay, milanese, bocconiano, studioso delle vecchie ricette e particolarmente attento a tutto ciò che è innovazione in cucina.
Dove innovazione significa, molto spesso, migliorare la “tradizione”.

Si rosola la cipolla tagliata a fette a fuoco dolcissimo, anzi per essere più tranquilli anche aggiungendo un goccio di acqua (meglio senza mettere grassi del tutto, che non servono), poi si porta a cottura, per dodici minuti circa, mescolando, la si toglie dal fuoco e la si trita. Nella casseruola invece si tosta a fuoco massimo il riso per un paio di minuti, poi si smorza il gas, e a seguire si aggiungono i primi mestoli di brodo bollente che portano la temperatura del riso a meno di 100°. Solo allora si rimette la cipolla.

Bene, possiamo mediare: io per la cipolla preferisco sempre del grasso (ovvero del burro, che aiuta a costruire meglio il sapore) e, utilizzando sempre due casseruole, porto a cottura la cipolla già tritata, aggiungendola solo in un secondo momento al riso trattato come descritto sopra.

Sappiate però che non si tratta dell’unico metodo e che amo i risotti senza cipolle ed affini, questione di gusti personali, sia chiaro.

“Appuntatevi” però burro acido, proveremo a parlarne in seguito.

3. Il riso

Già, il riso.

In tanti pensano di comprare riso Carnaroli con certezza pressoché assoluta, affidandosi a marche primarie e ben note, largamente presenti nella Grande Distribuzione.

Peccato non sia così: le norme attuali, in vigore dal 1958, prevedono l’esistenza di cosiddette “griglie”, che sanciscono l’appartenenza o meno ad una determinata specie.

Per capirci meglio, la ricerca, che va avanti costantemente, quasi ogni anno propone nuove tipologie di riso: in pratica, comprando una confezione di Carnaroli, potete portarvi a casa Caravaggio, Carnaval, Karnak Carnise, Poseidone, Keope, Leonidas.

Tutte varietà con costi di produzione inferiori e rese più alte, che garantiscono cioè margini di guadagno parecchio più ampi rispetto all’originale.

Tutto legale. A raccontarcelo con dovizia di particolari è il nostro amato prof. Dario Bressanini, di cui vi consiglio di leggere il post.

Quindi, pensando di aver comprato Carnaroli, spesso si compra soltanto un riso appartenente alla stessa “griglia”.

Si spiegano così, iniziative nate negli ultimi anni da parte di vari produttori de Pavese come DNA controllato o Carnaroli da Carnaroli, ovvero progetti che puntano a garantire la presenza del solo riso Carnaroli nella scatola che andiamo ad acquistare.

4. La cottura

Per poter cuocere il riso, quello semplicemente bollito, occorrono due elementi indispensabili: acqua e calore.

È proprio grazie ad essi che si produce la gelatinizzazione degli amidi che trasforma la struttura secca e dura del chicco crudo nella consistenza più morbida e masticabile di quello cotto.

Il chicco è formato da tante cellule al cui interno vi sono i granuli di amido.

Quando la temperatura si fa sufficientemente alta (da poco meno 70º a poco più di 80º), i granuli assorbono acqua, si gonfiano e diventano gelatinosi.

E sappiate che un chicco di riso cotto contiene almeno il 70% d’acqua.

Se l’acqua viene salata, il riso sarà salato.

Se al posto dell’acqua usiamo un brodo siamo molto vicini ad un risotto.

Ricordate cosa avevo raccontato a proposito della cottura della pasta “risottata”?

Bene, se aggiungiamo un po’ alla volta il brodo (ma vi ho detto prima che io, da buon eretico, preferisco quasi sempre la semplice acqua calda), facendo in modo che se ne vada in gran parte evaporando, il liquido residuo, grazie all’amido, diventa a sua volta un “gel” acquisendo una consistenza cremosa, che diventerà parte del condimento.

Però è chiaro che ‘sto riso un minimo di sapore lo deve avere.

Abbiamo detto che noi modernisti (anche se qui ne facciamo “tradizionale” uso) rifuggiamo dai classici brodi di carne e dalle cipolle più o meno stufate nel burro, preferendo rifinire con i soli burro e parmigiano il riso ormai cotto (in questo caso nemmeno usiamo il classico vino bianco per conferire acidità).

E quindi risulta fondamentale la tostatura, che effettuiamo in casseruola (a temperature piuttosto alte e che io consiglio “a secco”, ovvero senza grassi), facendo reagire chimicamente gli amidi e le poche proteine sulla superficie del chicco conferendo alcuni aromi piacevoli e un cambiamento strutturale della superficie che rallenta il rilascio dell’amido e allunga il tempo di cottura.

Un consiglio: salate ogni volta che si aggiunge brodo, con attenzione e assaggiate dopo un paio di minuti dall’aggiunta. Empiricamente ho verificato che serve un po’ di tempo per far si che il chicco di riso “prenda sapore”.

5. La mantecatura

Sappiate che il risotto un tempo veniva preparato in modo differente.

Veniva servito con una consistenza simile alla minestra, questo a riprova del fatto che non sempre le parole “buono” e “tradizione” vanno davvero a braccetto.

La cottura avveniva in un tegame di rame definito risottiera, cioè una casseruola tonda con un manico che passava da parte a parte la pentola e che rendeva difficile girare il risotto, movimento necessario.

E senza alcun dubbio anche oggi possiamo affermare che, nonostante la consistenza e l’aspetto finale siano diversi, è essenziale il movimento, così da amalgamare alla perfezione tutti gli ingredienti e garantire la cremosità del piatto.

Quindi mescolate di tanto in tanto il riso che sta cuocendo nella pentola, sia essa di rame (il migliore conduttore termico), o al limite d’alluminio.

Alla fine, fuori dal fuoco e prima di almeno un paio di minuti di necessario riposo, dopo aver condito con burro e parmigiano ricordatevi di ondeggiare il riso su se stesso, girandolo in modo tale da rendere il composto non troppo brodoso né troppo asciutto.
Saremo quindi giunti al momento dei colpi secchi alla pentola, facendo in modo che il risotto crei una sorta di onda sulla superficie, ovvero mantecandolo “all’onda”.

Buon appetito!

[Immagini: Davide Pezzella, BBC Food, Massimo D’Alma, Libero]

La ricetta scientifica spiegata in 5 punti

Cacio e pepe
Pasta, patate e provola al forno
Ragù napoletano
Papaccelle ‘mbuttunate
Focaccia messinese
Risotto alla parmigiana
Pasta e fagioli
Cartellate pugliesi
Tortelli di zucca