Roma. L’Osteria dell’Ingegno al Pantheon che va oltre la carbonara
Ai romani nu je toccate l’osteria. Che se oggi è ristorante in abiti casual, prima era il dopolavoro del popolo, quando l’aperitivo non si vedeva nemmeno all’orizzonte. Il cibo non c’era, te lo dovevi portare, ma c’era il vino e soprattutto un po’ di leggerezza. Nella Roma popolare, cioè il centro storico, sono quasi scomparse, soppiantate da locali che hanno spesso più format che cuore. Ma a piazza di Pietra, tra il Pantheon e Fontana di Trevi, resiste l’Osteria dell’Ingegno di Giacomo Nitti, che quest’anno festeggia il 25mo dell’attività.
Una vetrina, una tenda da sole con il nome scritto sopra, nessuna concessione al glamour, ma all’artigianato bello sì: entrando si notano i tavoli di design e le tele alle pareti, le lampade in ferro e le pitture a porpora e giallo “Sono i colori della Roma” mi spiega Giacomo, romano di origini spezzine: “Non me dì che sei della Lazio“.
Tifo a parte, donano un’atmosfera calda alla sala, dai soffitti alti e con una zona soppalcata che crea movimento. All’ora di cena il locale era pieno, c’erano tavolate di amici, cene di lavoro, coppie e turisti di passaggio. “Questi vengono tre volte a settimana, pure a pranzo” mi dice Giacomo indicando un gruppo seduto a un tavolo vicino, “quelli invece so’ amici, li conosco bene“.
L’oste, dei suoi ospiti, sa pure il nome. Perché la fiducia del cliente si ottiene con il tempo e l’accudimento. Non a caso in cucina Giacomo ha voluto mani femminili: sono Francesca, Anna e Lucia, tra loro rispettivamente mamma, figlia e zia a preparare le specialità in carta all’Osteria, come farebbero per quelli di casa.
Anche la sala è in mano femminile: Sabrina e le altre non si fermano un attimo per assicurarsi che tutti stiano bene. “Qui il personale va d’accordo“, mi spiega Giacomo “io non devo intervenire mai, tra loro si aiutano e fanno funzionare tutto“.
E’ l’atmosfera il segreto dell’Osteria dell’Ingegno, ora mi è chiaro, un’accoglienza rilassata ma attenta che si riflette anche sul menu. Non troppo esteso, ma vario; prevede una formula pranzo, con una selezione di piatti tra i 10,50 e i 16,50 € (oltre naturalmente alla proposta del giorno), mentre a cena si ordina da una carta più ampia, e lo scontrino medio per una pasto completo con calice di vino si aggira sui 40 € . “Non voglio fare cucina romana, ce ne sono già tanti“, mi spiega Giacomo, che prima dell’Osteria ha fatto lo chef a New York per circa diciott’anni. “Ho scelto una cucina regionale, con tante cose buone che abbiamo in Italia perché limitarci alla carbonara?” Che però in menu c’è, insieme agli altri primi della tradizione, perché i turisti li chiedono, ma in calce; li devi cercare. Altre cose attirano la mia attenzione, sulle lavagne con i piatti del giorno.
La tartare di gambero rosso, per esempio, con chicchi di melograno e le romanissime puntarelle (14,50 €). Belle fresche, croccanti e amarognole, un piacevole contrappunto alla dolcezza del crostaceo e anche all’acidulo del melograno. Un piatto che si gioca tutto sulle materie prime, dal pescato fresco all’olio extravergine toscano, e alle verdure a km0 quando possibile.
La Sicilia si esprime con il tradizionale beccafico, solo con la melanzana invece che con le sarde (10,50 €): al forno, leggera, con caciocavallo podolico all’interno, e naturalmente uvetta e pinoli. L’acciuga c’è, ma sta in cima, a guarnire e ribadire la mediterraneità del piatto.
Tra i primi in carta, (tutti tra i 12 e i 16,50) l’omaggio a Roma passa anche per i carciofi, spadellati e avvolti in crema di pecorino e menta, a condire un abbondante piatto di pici ben fatti in casa dalle signore in cucina. Confortanti e intensi, ora che fa buio presto e le temperature iniziano a calare.
Ci abbiniamo un ottimo Lucido, catarratto bianco lucido in purezza di Marco de Bartoli, che fermenta su lieviti indigeni e sulle fecce fini per 7 mesi: ampio, lungo e sufficientemente intenso per gestire addirittura il carciofo.
Le orecchiette restano pugliesi anche nell’interpretazione dell’Osteria dell’Ingegno: uniche concessioni alla ricetta tradizionale con le cime di rapa sono l’aggiunta di polpo a tocchetti e le scaglie di peperone crusco, che donano movimento, punte di dolcezza e insieme intensità. Buone, e morbidissimo il polpo, ma nel complesso un pelo sottotono rispetto al piatto precedente.
Scelgo il pesce anche per il secondo, una ricciola alla griglia servita con cicorietta ripassata, pomodorino confit e salsa di zucca. “Il menu cambia a seconda di quello che viene pescato ogni giorno, per quello non ci sono tanti piatti di pesce in carta. Fa fede la lavagna” mi spiega Giacomo. Un piatto pulito, essenziale, di una semplicità delicata che – come per il gambero crudo – poggia la sua riuscita sugli ingredienti e su una manualità rispettosa. Tutti i secondi in carta vanno dai 14,50 ai 25€, il pescato varia a seconda della tipologia e del peso.
Manualità che si ritrova tutta nella torta al cioccolato, una caprese rivisitata che si scioglie in bocca, leggera e ariosa (8 €). Anche senza salse, con solo una spolverata di zucchero a velo, avrebbe fatto un figurone. Il tiramisù è finalmente da manuale, equilibrato, cremoso, sofficissimo, davvero molto buono (7,50 €).
Cenare all’Osteria dell’ingegno è particolarmente rilassante. Ci si va per mangiare bene, certamente, ma il piatto ha una sua discrezione, un pudore riservato che lo mette in secondo piano rispetto all’interazione umana. Da protagonista, il cibo diventa un accompagnamento gustativo alla conversazione, proprio come era un tempo, regalando quella piacevolezza che lì per lì fa indugiare sulla sedia. E poi fa venire voglia di tornare.
Osteria dell’Ingegno. Piazza di Pietra 45. Roma. Tel. +39 +06 6780662