mulino caputo farine per pizza, pane e dolci

Chiacchiere di Carnevale: la ricetta scientifica spiegata in 5 punti

mercoledì, 27 Febbraio 2019 di

Le chiacchiere, con nomi differenti a seconda delle regioni, sono uno dei dolci più famosi di Carnevale.

E di queste sfoglie di pasta piuttosto sottile, preparate sostanzialmente con uova e farina, v’abbiamo raccontato, ad esempio, della versione di Gabriele Bonci, così come di quelle stellate preparate da Cristina Bowerman.

E a voler essere precisi in questi casi stavamo parlando di frappe e non più di chiacchiere.

Perché se fossimo stati in Piemonte oppure a Genova avremmo parlato di bugie, in Toscana di cenci, in Umbria, Lazio e parte dell’Emilia di frappe, ma non a Bologna, dove si parla di sfrappole, ed in altre zone addirittura di lasagne.

E ancora crostoli (o grostoli) nel Triveneto, dette galani a Venezia ed a Verona, chiacchiere in Lombardia, lattughe a Mantova, insomma un vortice di nomi davvero complesso.

E non aiuta Pellegrino Artusi che preferisce il nome cenci quasi a voler rimarcare delle vaghe origini toscane del dolcetto ed una certa supremazia della cosiddetta “lingua” toscana sulle altre.

Ma da cosa dipende la grande varietà di nomi con cui vengono definiti?

Sicuramente per la forma: in Toscana, ad esempio, la sfoglia veniva tagliata a forma di nastro più o meno largo con i bordi dentellati, come un pezzo di stoffa.

Potremmo anche pensare alla cottura, che arricciava queste sottili losanghe facendo assumere loro la forma di uno straccio spiegazzato (il cencio appunto).

Ancora una volta dalla forma deriva il nome dei galani veneziani, che ricordava quella delle pettorine merlettate e inamidate che i gentiluomini portavano sul davanti della camicia (le cosiddette “gale”).

E potremmo parlare di bugie in quanto la forma ricorda quella del piattello provvisto di bocciolo porta candela, che porta proprio lo stesso nome.

Per quel che concerne la consistenza del dolce, pare anche che la sua friabilità abbia contribuito per alcuni nomi quali grostoli o crostoli, che derivano dal latino crustulum, biscotto, per indicare proprio qualcosa di croccante.

Qualunque sia il nome si tratta, come dicevo, di dolcetti tipici del periodo carnevalesco, ma in origine è molto probabile che venissero preparati generalmente nei periodi di festa.

E pare che nell’antica Roma vi siano le prime testimonianze dell’esistenza di questi dolci, detti frictilia, dolcetti a base di uova e farina, fritti nello strutto e dolcificati con il miele, che venivano serviti in abbondanza per le strade in occasione di festività.

Come le Liberalia, feste in onore della fertilità, oppure durante i Saturnalia, festività corrispondenti al moderno carnevale, quando le donne erano solite offrire delle pizzette dolci fritte.

L’essere contraddistinto dalla veloce preparazione in quantità abbondanti ne fece un dolce molto popolare.

Qualcuno di voi si sarà però chiesto del perché proprio a Carnevale?

Parrebbe essere la composizione di uova, zucchero, farina e strutto (o burro) atta ad essere consumata particolarmente nei giorni del carnevale proprio per preparare il corpo alla successiva astinenza quaresimale.

Non per niente, per lo stesso motivo, anche le carni erano consumate in abbondanza nel periodo tra Gennaio e Febbraio.

E nella tradizione contadina era il periodo giusto per la macellazione del maiale per cui abbondavano sia le carni che lo strutto, elemento fondamentale per le fritture grazie alla sua economicità.

A mancare, comunque, è una certa storicità, in quanto non sono molti i ricettari antichi che riportano ricette delle chiacchiere, al punto che possiamo, ad esempio solo immaginare la presenza dello zucchero a velo come guarnizione “moderna” al posto del miele di un tempo.

Nel web, comunque, questa ricetta dalla vasta eco popolare è presente in tantissime versioni, ognuna leggermente diversa dall’altra. Io come al solito ho provato a “mediare” ed ad aggiungere qualche spunto scientifico.

La ricetta scientifica delle chiacchiere di Carnevale

Ingredienti (per 40/50 chiacchiere)

300 g di farina 00 W280/300
40 g di zucchero
2 uova medie
60 g di latte
30 g di burro fuso
2 cucchiai di liquore Strega (in alternativa Rum, Gran Marnier, Grappa o liquore a scelta)
Buccia grattugiata di 1 limone grande non trattato
1 pizzico di sale
1 l di olio di semi di arachide per friggere
Zucchero a velo vanigliato per guarnire

1. La farina

In pasticceria si usa quasi esclusivamente solo farina di grano tenero e tutte queste farine contengono amido e le proteine del glutine (provenienti dall’endosperma, che è la parte interna del chicco).

Nelle farine troviamo però, in misura variabile, anche la crusca ed il germe del chicco.

La crusca è più ricca di minerali mentre l’endosperma è più ricco di amido ed ha meno minerali.

Ecco perché le farine sono classificate secondo il contenuto dei minerali, o meglio, secondo le ceneri, in quanto bruciando la farina quel che resta sono i minerali ed i loro ossidi, che non bruciano (avrete visto le farine tipo 00, 0, 1, 2 ed integrale sugli scaffali della GDO)

Sarà la farina integrale ad avere il massimo contenuto di ceneri perché tutto il chicco è stato utilizzato, mentre la farina più bianca sarà prodotta con il solo endosperma.

Come dicevo la farina 00 è quella “da pasticceria”, estratta dal solo endosperma e con il glutine che non ha ostacoli per formarsi.

Però per valutare la quantità di glutine che va a formarsi avremo bisogno di altri parametri: semplificando molto, sappiate che qui preferiamo utilizzare una farina cosiddetta “di forza”, questo per permettere alle nostre chiacchiere di sviluppare in cottura, grazie ai liquidi presenti nell’impasto (latte e grappa), quelle “bolle” che ci interessano nel risultato finale.

2. Il burro

In questa ricetta serve principalmente a fornire gusto e morbidezza alla preparazione finale, non lo lavoriamo come in una frolla.

E sapete che potete agevolmente preparare il burro in casa? Noi ve lo spieghiamo qui, voi sappiate che si tratta di una emulsione di goccioline d’acqua disperse in un grasso, tenute insieme dalle sostanze emulsionanti naturalmente presenti nel latte.

Solitamente possiamo distinguerlo in:

Burro centrifugato. Di alta qualità, prodotto direttamente dalla centrifugazione del latte appena munto, e proveniente da una filiera sempre a bassa temperatura.

Burro di affioramento o burro di caseificio. Di minore qualità, prodotto generalmente come sottoprodotto della produzione casearia, dove l’affioramento spontaneo, a temperatura ambiente, genera una certa carica microbica che obbliga ad ulteriori trattamenti industriali.

Burro grezzo, prodotto intermedio stoccato in attesa di rifusione e pastorizzazione. Denominato anche “zangolato di creme fresche” per la burrificazione, prodotto da affioramento da inviare a ulteriori processi.

Burro di siero, prodotto non direttamente dal latte, ma come sottoprodotto dei grassi residui nel siero di origine casearia, di qualità ulteriormente inferiore.

3. Lo zucchero

Quando parliamo di zucchero vuol dire che stiamo sicuramente parlando di preparazioni di pasticceria.

Qui ne usiamo comunque in piccola quantità nell’impasto, utilizzandolo per la guarnizione.

Approfitterei però per segnalarvi una delle capacità meno note dello zucchero, ovvero il suo utilizzo in conservazione: avendo grande affinità con l’acqua la attira a sé e la sottrae a muffe o batteri che ne avrebbero bisogno per riprodursi.

È il principio alla base delle marmellate, che uno dei più vecchi metodi per conservare la frutta dopo la raccolta. Ed alla stessa maniera si conserva la frutta candita.

4. La buccia di limone


Come vi avevo raccontato nella ricetta dell’ossobuco, non è casuale la presenza della buccia di limone in una ricetta molto in voga in Lombardia.

Ed è il sito che la Regione Lombardia ha dedicato a prodotti tipici e ricette a chiarirmi le idee sull’utilizzo del limone (qui in verità della sola buccia).

Pur non essendo un frutto lombardo (cresce solo sulle rive dei laghi più grandi) è un ingrediente molto ricercato dalla gastronomia regionale.

Il sodalizio nasce nel Medioevo, quando i limoni, assieme alle arance selvatiche (i naranzi dei ricettari trecenteschi), che ancora non si era riusciti ad innestare convenientemente per ricavarne una varietà dolce, erano usati in funzione di spezie.

Con la rivoluzione illuministica delle tecniche “cucinarie” e del gusto, l’impiego delle spezie fu drasticamente ridimensionato, mentre quello del limone, considerato un alimento più naturale e meno artificioso rispetto alle droghe, rimase costante, per ottenere dai cibi un impatto gustativo simile a quello che precedentemente era raggiunto con l’aceto o con l’agresto.

Possiamo far risalire alla seconda metà del Settecento quasi tutte quelle preparazioni tradizionali, come la gremolata, aromatizzate con scorza di limone in assenza di altre spezie (quando invece l’accostamento a spezie potenti, come i chiodi di garofano, la cannella o la noce moscata, rimanda ad origini più antiche).

5. Preparazione e cottura

Prendiamo una boule o una ciotola in metallo abbastanza grande in modo da poter lavorare comodamente l’impasto.

Disponiamo la farina, mescolata con lo zucchero, la buccia di limone grattugiata e il pizzico di sale, facciamo un buco al centro e inseriamo le uova intere, il burro precedentemente fuso, il liquore e mescoliamo con una forchetta i liquidi presenti nel centro.

Giriamo poi inglobando piano piano la farina ai lati, fin quando i liquidi saranno assorbiti.

Otterremo un impasto a grosse briciole morbide, sarà il momento di aggiungere il latte.

Amalgamiamo tutti gli ingredienti prima con la forchetta, poi proseguendo a mano, fino ad ottenere un impasto che si stacca dalla parete della ciotola, formiamo una palla e avvolgiamo in una pellicola per alimenti facendo riposare almeno 30 minuti a temperatura ambiente.

A questo punto siamo ad un bivio, ovvero possiamo stendere la sfoglia con il matterello oppure con la macchina della pasta. Io ho preferito la seconda, ma descrivo di seguito brevemente tutti e due i metodi.

Con il mattarello: dividiamo l’impasto in 3 parti, stendiamo un pezzo per volta, più sottile che possiamo, su un piano di lavoro ben infarinato e ripieghiamo su se stessa la sfoglia un paio di volte.

Ottenuta una sfoglia sottile ed omogenea, procediamo come indicato di seguito.

Ricordate, che più volte ripieghiamo la sfoglia, più l’impasto tenderà a riempirsi di bolle.

Con la macchina per la pasta:

Stacchiamo un pezzetto di impasto, appiattiamolo con le mani ad una lunghezza di circa 10 – 12 cm.

Inseriamo il pezzo di impasto nella fessura nella macchina della pasta, impostata alla larghezza massima (per iniziare) leggermente infarinata e tirate la prima sfoglia.

La prima sfoglia si presenta piuttosto spessa e appiccicosa, infariniamo bene la sfoglia, e pieghiamola a metà, inseriamola nuovamente nella macchina della pasta infarinata e ripetiamo l’operazione un paio di volte.

Infine impostiamo la macchina della pasta ad uno spessore medio (va bene 4 oppure 5) e proseguiamo a tirare la sfoglia, ripiegandola e infarinandola 2 – 3 volte fino ad ottenere una sfoglia molto sottile, quasi velata, uniforme e liscia.

Caliamo ancora di una tacca se le vogliamo super sottilissime.

Ritagliamo i contorni laterali della sfoglia con una rotella taglia pasta dentata e tagliamo la sfoglia per ottenere dei rettangoli medio – grandi: disponiamo i rettangoli distanziati affinché non si attacchino tra loro, su vassoi leggermente infarinati. Andiamo avanti fino ad ultimare l’impasto.

Prepariamo ora la padella con abbondante olio di semi di arachide.

Io preferisco friggere 2, massimo 3 pezzi per volta.

Se ne dobbiamo cuocere tante consiglio di sostituire l’olio a metà cottura.

L’olio è pronto ad una temperatura di circa 170°C, e in assenza di termometro, per capire quando è pronto facciamo una prova con un pezzetto di impasto.

Se sale a galla formando micro bollicine intorno senza annerire, possiamo procedere alla frittura.

Se il pezzetto di impasto resta sul fondo, significa che l’olio è ancora freddo, aspettiamo ancora un pò.

Quando il pezzetto di impasto si colora subito significa che l’olio è troppo caldo, lo allontaniamo dal fuoco, facendo raffreddare e facciamo una nuova prova dopo poco.

Immergiamo le chiacchiere nell’olio bollente, sulla superficie a contatto con l’olio si formeranno immediatamente delle bolle e nel giro di pochissimi secondi la chiacchiera si accartoccerà.

Le giriamo dopo 7 – 8 secondi, si formeranno bolle anche sull’altra superficie, le rigiriamo, ancora pochi secondi fino a leggera doratura e scoliamo con un mestolo forato, ponendola su una carta assorbente. Proseguiamo, facendo molta attenzione alla temperatura, fino ad esaurimento.

Una volta che le chiacchiere sono ben fredde, spolveriamole di zucchero a velo su entrambi i lati e poniamole in un piatto da portata.

Buon appetito!

[crediti: aifb.it; tavolartegusto.it]

La ricetta scientifica spiegata in 5 punti

Cacio e pepe
Pasta, patate e provola al forno
Ragù napoletano
Papaccelle ‘mbuttunate
Focaccia messinese
Risotto alla parmigiana
Pasta e fagioli
Cartellate pugliesi
Tortelli di zucca
Pastrami di manzo
Cassata siciliana
Spaghetti con le vongole
Pasta alla genovese
Pizza in pala alla romana
Cassoeula
Ossobuco alla milanese
Crêpes
Carbonara
Pasta, patate e provola di Nennella
Ragù alla bolognese
Lasagne