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Minestra maritata ricetta

Minestra maritata napoletana, la ricetta scientifica

domenica, 08 Dicembre 2019 di

Meglio esser chiari: non c’è straccio di prova che indichi in modo certo ed inequivocabile le origini della minestra maritata, ‘a menesta mmaretata.

Piccola spiegazione dedicata ai #diversamentepartenopei: la minestra maritata, questa la facile traduzione dal dialetto napoletano, è quella succulenta e goduriosa minestra nella quale le verdure si uniscono, si “maritano” appunto, con la carne ed il brodo da essa ottenuto.

Diventato nel tempo uno dei signature dish della “tradizione” napoletana, è come dicevo, dalle origini poco chiare: sicuramente molto antiche, con qualcuno che sostiene (onestamente non so se a torto o a ragione) della presenza della minestra maritata già nei menù degli antichi romani.

Colpa di Marco Gavio Apicio, e del suo libro di ricette “De Re Coquinaria”, dove è presente una zuppa che sembra molto simile a quella maritata.

E quindi io, in cerca di conferme, non ho potuto fare altro che rivolgermi ad una autentica autorità in campo partenopeo, ovvero Raffaele Bracale.

È lui, dalle colonne del suo blog ad indicarci la “strada maestra”.

“il nome di pignato grasso [altro nome con cui è nota a Napoli la preparazione, ndr],
è espressione che traduce quasi i termini olla podrida, che è il nome con cui questa preparazione è e fu (sin dal 1200) in uso in Ispagna. E furono infatti proprio gli spagnoli  durante le loro dominazioni ad importarla dapprima a Napoli (1300 ca) e poi anche in Lombardia (1600ca) dove fu l’antenata di quella oggi nota con il nome di cassoeula.

In effetti le piccole differenze tra minestra maritata e cassoeula si riducono al solo fatto che mentre la minestra napoletana è ricca di numerose verdure quasi omaggio alla tradizionale rigogliosità degli orti partenopei,quella lombarda si accontenta della sola verza; si può dire insomma che sia ‘a menesta ‘‘mmaretata che la cassoeula sono una interpretazione “ad usum delphini” [semplificata, ndr] della olla podrida!
Rammento che questa menesta ‘mmaretata non va confusa con la piú contenuta e semplice menestella ‘e Natale (che viene preparata anche nel pranzo pasquale come portata d’ingresso)”.

Orbene sia chiaro, io di darvi la ricetta storica me ne guardo davvero bene.

Prima di tutto perché difficilmente “codificabile”, e poi perché, oltre ad essere notoriamente “eretico”, sono alla ricerca di qualcosa di maggiormente “gestibile” ai giorni nostri.

Quindi certamente lontana da quella cinquecentesca del marchese G.B. Del Tufo, che prevedeva:

“la mescolanza di salsicce di vario tipo, sopressate, pancetta, prosciutto, muso di vitello, piede di porco, carne secca, un orecchio, formaggio, finocchi ed anice, spezie e foglie scelte nelle più tenere cime”.

Oppure da quella del 1800 circa di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, dove si usava:

“un pezzo di carne di giovenca grassa, un cappone imbottito, una gallina paesana, un salsiccione, una fetta della parte genitale della scrofa (verrinia), 4 capi di salsicce cervellate, un pezzo di cacio nostrano, ossa mastre, spezie e verdure scelte a piacere”.

Queste due ricette si eliminano praticamente da sole dalla nostra ricerca, per buona parte a causa delle materie prime piuttosto inusuali e difficilmente reperibili.

Eppure segnalano chiaramente un caposaldo di questa preparazione, ovvero che non esistono codifiche vere e proprie nella scelta delle verdure da utilizzare. E che sarà principalmente la stagionalità a definire il giusto mix di verdure che “mariteremo” con le carni.

Insomma siamo ancora alla ricerca di una ricetta, che per me deve essere necessariamente “moderna”, convinto come sono che non sempre “tradizione” faccia rima con “buono”, ma perfettamente a conoscenza dell’impossibilità di abbreviare i tempi di preparazione.

E devo dire la verità, la ricerca si è poi rivelata meno difficile del previsto, perché la ricetta che fa per me l’avevamo “in casa”, ovvero quella del bistellato Torre del Saracino, contraddistinta dalle cotture brevi delle verdure, dalla preparazione separata dei brodi e dalla giusta dose di classicità campana nella scelta di diversi ingredienti.

Ed è questa la base su cui mi sono “mosso”, con qualche piccola variazione nel mix di verdure, ed aggiungendo ove possibile, le mie consuete note scientifiche.

La ricetta scientifica della minestra maritata

Ingredienti (per 4-6 persone)

A. Verdure

  • 1 scarola riccia (indivia)
  • 2 scarole liscie
  • 500 g di broccoli a foglia
  • 300 g di bietole
  • 400 g di coste
  • 300 g di borragine
  • 300 g di spinaci
  • 300 g di cicoriette selvatiche
  • 300 g di cavolo nero
  • 200 g di cavolo riccio
  • 300 g di catalogna
  • 1 verza

B. Brodo di manzo

  • 1,5 kg di carne di manzo (biancostato di reale, polpa di spalla, polpa di reale con osso)
  • 5 litri di acqua
  • 1 carota
  • 1 costa di sedano
  • 1 cipolla bianca di media grandezza
  • 1 pomodoro
  • 2 foglie di alloro
  • 2 gambi di prezzemolo

C. Brodo di gallina

  • ½ gallina
  • 5 litri di acqua
  • 1 carota
  • 1 costa di sedano
  • 1 cipolla bianca di media grandezza
  • 1 pomodoro
  • 2 foglie di alloro
  • 2 gambi di prezzemolo

D. Piedini di maiale

  • 2 piedini di maiale (ben puliti dal macellaio)

E. Altri ingredienti

  • 120 ml olio extravergine d’oliva
  • 1 cipolla bianca di media grandezza
  • 120 g Parmigiano Reggiano grattugiato
  • 250 g di caciocavallo tagliato a cubetti (opzionale) 
  • Sale e pepe qb

1. Le verdure

Il procedimento è semplice: dobbiamo mondare, tagliare e lavare le varie verdure, che poi lesseremo separatamente (e brevemente) in acqua salata per poi raffreddarle immergendole in acqua e ghiaccio.

Infine le strizzeremo per eliminare la maggiore quantità d’acqua possibile e conserveremo separatamente per tipologia.

Non vi tedierò ora con uno “spiegone” sul perché le verdure vanno lessate ma non a lungo, e neanche mi dilungherò sulla necessità di raffreddarle in acqua e ghiaccio.

Scientificamente, però sappiate che l’acqua in cui andremo a lessare le nostre verdure la potremo tranquillamente non salare: a disattivare gli enzimi responsabili della degradazione di colore è la temperatura, non il sale come vuole la credenza popolare. Insomma il sale lo scioglieremo in acqua solo per insaporire.

Seguite, tanto per rimanere in allenamento, un test del Prof. Bressanini con le foglie di basilico. Poi ne saprete sicuramente di più su polifenolossidasi (responsabile dell’imbrunimento delle verdure) e clorofillasi (che causa la sparizione del colore verde).

Un paio di “cose” curiose (e semplificate al massimo).

La clorofilla è un pigmento, ovvero una sostanza che si presenta colorata e che assorbe solo determinate radiazioni luminose.

Sappiate poi che un pigmento mostra il colore della radiazione che non viene assorbita. E la clorofilla, in particolare, assorbe rosso e blu e non assorbe verde e giallo. Ecco spiegato il verde delle foglie, anche delle verdure, quel colore che cerchiamo di mantenere vivo e brillante anche dopo la cottura.

D’inverno, quando la clorofilla diminuisce a causa delle minori ore di luce, saranno carotenoidi, xantofille o antociani ad essere prevalenti, ed ecco il colore giallo, arancione, rosso o bronzo delle foglie.

Un enzima,invece, è una molecola prodotta dalle cellule, incaricata di rendere possibili e rapide le trasformazioni chimiche necessarie alla vita.

Un esempio ci aiuterà a capire meglio.

Quando mangiamo degli spaghetti al loro interno è presente una molecola complessa, l’amido, che viene digerita nell’intestino grazie all’opera di un enzima di nome amilasi. Il risultato è la trasformazione in molecole più piccole di glucosio, i carboidrati, che poi, dentro le cellule, si trasformano in molecole ancora più semplici, producendo energia.

Pensate però al fatto che una reazione, in quanto tale, avverrebbe lo stesso, anche senza un enzima.

Proviamo però a riflettere: se la temperatura del corpo umano è 37ºC, in assenza dell’enzima, a quella temperatura la “frantumazione” dell’amido impiegherebbe praticamente secoli, e non potremmo neanche pensare di scaldare all’interno del nostro corpo l’amido a temperature al di sopra dei 100º, tipo quelle di una cottura. Velocizzeremmo il processo, ma sarebbe incompatibile con la nostra vita.

Quindi, perché la reazione possa avvenire efficacemente e in fretta a 37°, è necessario rendere “instabile” la molecola anche a 37°.  Ed è così che l’enzima amilasi ci permette di gustare gli spaghetti, velocizzando il processo senza bisogno di altra “energia”.

E sappiate che nel corpo umano lavorano incessantemente almeno 450 mila enzimi diversi.

2. Le carni

Anche qui potremmo scrivere un post a parte: la “consuetudine” (la chiameremo così), quella popolare, vuole l’utilizzo di carni di secondo, anche terzo, taglio. Non esiste una vera regola scritta. In tempi neanche tanto lontani si aggiungevano alle verdure le carni a propria disposizione.

Altra cosa da tenere di conto è la oggettiva difficoltà di addentrarsi nelle varie nomenclature locali, quindi mi scuserete per quelle che potrebbero sembrare delle imprecisioni.

Non credo servano indicazioni per la gallina, mentre per le carni di manzo ritengo opportuno spendere qualche parola.

Generalmente usato è il muscolo di manzo (quello di vitella si lascia attaccato allo stinco), un secondo taglio, abbastanza economico, che si compone di una serie di tessuti connettivi che rende questa carne “gelatinosa”, ma non grassa. Insomma perfetto per le lunghe cotture.

Da antiche ricette (Raffaele Bracale docet) viene l’uso della “corazza”, che è quel taglio di carne “di seconda” del bovino adulto  ricavato dai muscoli delle prime 5 vertebre dorsali anteriori (muscoli intercostali e gran dorsale) adatto per arrosti, spezzatini, bolliti e stufati.

Lo individuerete a seconda delle zone d’Italia come taglio reale, biancostato, gabbia, ossette, restringitura. Ed è quello che ho utilizzato per questa ricetta.

La voce napoletana “curazza” (corazza), racconta Raffaele Bracale, “è dal tardo latino e significa coriacea, deriv. di corium ‘cuoio’, in quanto che dalla pelle che insiste su detto taglio di carne si ricava un ottimo cuoio con il quale un tempo si fabbricavano scudi e corazze.”

Un discorso a parte meritano i piedini di maiale, in questa versione l’unico elemento suino presente. Vanno lasciati in acqua fredda per una giornata intera cambiandola spesso. Vanno poi portati ad ebollizione partendo da acqua fredda e poi raffreddati con acqua corrente, ripetendo questa operazione 3 volte, eliminando così ogni residuo. Vanno infine rimessi in acqua salata e fatti ribollire fino ad ottenere la loro cottura. Li faremo raffreddare e li taglieremo poi a pezzettini, mettendoli da parte.

3. Il brodo

Innanzitutto brodi separati come dicevamo, ovvero uno di carne di manzo ed uno di gallina.

In ambo i casi prepareremo, tagliando a pezzi grandi ed irregolari, sedano, carota e cipolla, a cui aggiungeremo il pomodoro intero, i gambi di prezzemolo e le foglie d’alloro.

Ripuliremo le carni sotto l’acqua corrente per eliminare eventuali residui (sangue compreso).

Provvederemo poi alla cottura, lasciando sobbollire per almeno 3 ore (al limite aiutatevi con un termometro).

Durante la cottura, di tanto in tanto, schiumeremo il grasso e le impurità che affioreranno in superficie.

Trascorso il tempo, scoleremo le carni, le taglieremo a pezzetti e le terremo da parte.

Terremo da parte anche i brodi, dopo averli filtrati con un colino a maglia fina.

Si vabbè, ma per far ciò partiremo da acqua fredda o da acqua calda?

Hervè This, nel suo Pentole e Provette, autentica pietra miliare nel “racconto” della scienza in cucina, ci parla di Justus von Liebig, il famoso chimico tedesco, quello che tutti conosciamo per i suoi estratti di carne.

Semplificando il più possibile, sappiate che Liebig sosteneva che per fare un buon brodo, bisognava partire necessariamente dall’acqua fredda.

E fu questa la base della sua avventura industriale. Il famoso “estratto di carne” era ottenuto facendo evaporare sottovuoto un brodo preparato con carne tritata cotta partendo da acqua fredda.

Liebig era un buon chimico e godeva di ottima fama, tant’è che la sua teoria è arrivata fino ai nostri giorni, e non so se fu per esigenze “commerciali” di chissà quale tipo che un semplice esperimento come quello di seguito riportato non fu mai eseguito (o forse mai raccontato).

Hervè This, il nostro scienziato, ha diviso un pezzo di carne in due parti uguali, mettendone una metà in acqua fredda, l’altra in acqua bollente; ha riscaldato e pesato i due pezzi di carne ad intervalli regolari.

Ha osservato come, nell’acqua bollente, la massa diminuisse rapidamente, a differenza di quanto accadeva nell’acqua fredda che man mano si riscaldava.

Però ha rilevato come, dopo circa un’ora di cottura, la perdita di peso dei due pezzi di carme fosse praticamente la stessa. E che in seguito, la massa non variasse più, anche prolungando la cottura di diverse ore.

Per di più, in degustazione alla cieca, ha verificato come non fosse possibile distinguere un brodo dall’altro.

Il risultato? Che la teoria del brodo partendo da acqua fredda, improbabile in teoria, è falsa in pratica. 

Orbene, noi avremo bisogno sia del brodo che della carne, che cercheremo di non rendere “esausta”.

Va da sé che controlleremo la temperatura, non inseriremo la carne in acqua in piena ebollizione ma molto prima (il tessuto connettivo inizia a sciogliersi dopo i 60º e non ama gli shock termici elevati), a fine cottura la faremo raffreddare per un po’ di tempo nello stesso brodo, in modo da reidratarla leggermente e rendere più  “maneggiabili” le carni che andremo a tagliuzzare.

Potreste però non avere voglia di “complicarvi la vita”, e potreste non avere un termometro.

Beh, partite pure da acqua fredda, con meno “complicanze” operative. Il risultato, come verificato, sarà praticamente lo stesso, e nessuno vi accuserà di “lesa maestà”.

4. Le possibili aggiunte

La ricetta qui utilizzata la possiamo definire, senza dubbio alcuno, moderna.

I brodi separati, le verdure, selezionate secondo “tradizione”, ma lasciate “croccanti”, la scelta delle carni privilegiando quelle più “leggere”.

Sia chiaro che sarete liberissimi d’inserire anche altri tagli di maiale:

  • Le tracchie, ovvero le spuntature, ricavate in preferenza dal collo.
  • La nnoglia, una salsiccia piccante, secca ed affumicata. Tipica dell’entroterra Campano, prodotta con carni di scarto ed interiora, molto grassa, viene consumata sia cotta che cruda.
  • Il mascariello, ovvero la guancia di maiale fresca macellata.

5. La cottura

È la fase finale, quella del “matrimonio” tra verdure, carni e brodi.

In una pentola alta metteremo 120 ml di olio di oliva extravergine di oliva e faremo soffriggere della cipolla tritata.

Aggiungeremo i vari tagli di carne e le varie verdure, partendo da quelle più consistenti.

Dopo alcuni minuti verseremo 2 parti di brodo di manzo ed 1 parte di brodo di gallina.

Porteremo a bollore per poi servire la minestra calda aggiungendo pepe macinato al momento ed una spolverata molto generosa di parmigiano reggiano.

Un paio di piccoli consigli: se avete conservato una buccia di parmigiano non esitate a metterla nella minestra, ne guadagnerà il gusto finale.

Se di vostro gusto, potrete aggiungere, poco prima di servire, dei cubetti di caciocavallo.

Buon appetito!

[link a  lellobrak.blogspot.com; treccani.it/enciclopedia/]

La ricetta scientifica spiegata in 5 punti

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  3. Cartellate pugliesi
  4. Casatiello napoletano di Pasqua
  5. Cassata siciliana
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