mulino caputo farine per pizza, pane e dolci

Zeppole di San Giuseppe: la ricetta scientifica spiegata in 5 punti

domenica, 03 Marzo 2019 di

Le zeppole di San Giuseppe sono il dolce incontrastato del mese di marzo come ben sapete.

E non c’è Carnevale o Pasqua – con le loro date ballerine – che tengano.

La ricetta perfetta delle zeppole è fonte di dispute familiari seconde per virulenza solo a quelle innescate dal ragù.

Non una citazione estemporanea giacché la zeppola (a proposito, qui il video per una perfetta formatura)che nasce da una pâte à choux fritta e poi farcita di crema pasticciera ed amarene è ad alto tasso partenopeo.

L’antica matrice della ricetta sembrerebbe certa, visto che, come ci racconta il napoletanologo Raffaele Bracale nel suo blog, il dolce era già noto intorno al 500 a.C., quando a Roma si celebravano i Liberalia, feste in onore delle divinità del vino e del grano nel giorno del 17 marzo.

In onore di Sileno, “compagno di bagordi e precettore di Bacco”, pare si consumasse una grande quantità di vino, addizionato di miele e spezie e, sempre in onore delle divinità, si friggessero frittelle di frumento che a quanto pare sono le antenate salate delle a noi più note zeppole dolci.

Le feste dei Liberalia vennero celebrate finché l’imperatore Teodosio II non proibì il culto pagano.

E come tante feste pagane anche la celebrazione di Bacco si sarebbe poi confusa nel tempo con le celebrazioni del Cattolicesimo, facendola coincidere con la festa di San Giuseppe del 19 marzo.

La storia, però attribuisce la paternità della zeppola di San Giuseppe, così come la conosciamo oggi, alla città di Napoli, in quanto la prima ricetta scritta si trova nel “trattato di Cucina” del gastronomo Napoletano Ippolito Cavalcanti del 1837.

Miette ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza carrafa d’acqua fresca, e no bicchiere de vino janco, e quanno vide ch’accomenz’a fa lle campanelle, e sta p’asci a bollere nce mine a poco a poco miezo ruotolo, o duje tierze de sciore fino, votanno sempe co lo lanatiuro; e quanno la pasta se scosta da tuorno a la cazzarola, allora è fatta, e la lieve mettennola ncoppa a lo tavolillo, co na sodonta d’uoglio; quanno è mezza fredda, che la può manià, la mine co lle mmane per farla schianà si pe caso nce fosse quacche pallottola de sciore: ne farraje tanta tortanielli come solo li zeppole e le friarraje, o co l’uoglio, o co la nzogna, che veneno meglio, attiento che la tiella s’avesse da abbruscià; po co no spruoccolo appuntut le pugnarraje pe farle squiglià e farle venì vacante da dinto; l’accuonce dinto a lo piatto co zuccaro, e mele. Pe farle venì chiu tennere farraje la pasta na jurnata primma.

In verità, nella Napoli dei “friggitori di strada”, le zeppole sembrerebbero già note qualche tempo prima.

Parrebbe opera di tal P. Pintauro, intorno al 1815, accreditato anche come l’ideatore della sfogliatella, il quale rivisitando le antichissime frittelle romane di semplice fior di frumento, diede vita alle attuali zeppole arricchendo l’impasto di uova, burro ed aromi vari e procedendo poi ad una doppia frittura prima in olio profondo e poi nello strutto.

Restano da capire le vere origini della parola “zeppola”, a prima vista fortemente contrastanti.

Alcuni ritengono che derivi dal latino serpula, serpe, il che giustificherebbe la forma di serpente attorcigliato su se stesso.

Altri, invece, sostengono che il nome derivi da zeppa, dal latino cippus, con cui a Napoli si identifica il fermo di legno posto per correggere i difetti di misura nei mobili.

Con un chiaro riferimento al mestiere di San Giuseppe.

 Da non dimenticare poi che altri collegano le zeppole alla cymbala, un’imbarcazione fluviale dal fondo piatto e con l’estremità arrotondata simile alla forma di una ciambella.

Con il nome modificatosi nel tempo da cymbala in zippula da cui zeppola.

Un’ultima ipotesi ne ricollega la radice etimologica a saettala, da saettio, cingere.

Questo termine si utilizzava per indicare oggetti di forma rotonda in genere.

Tante le alternative sulle nostre pagine, comunque sempre vicine alla “classicità”, da quella del noto pasticciere salernitano Sal De Riso, a quella della chef stellata Rosanna Marziale per finire con le versioni dell’eroe “dei due forni” Gabriele Bonci che le prepara indifferentemente fritte ed al forno.

Insomma, con tutti questi nomi importanti ancora una volta ho dovuto mordere il freno.

Ricetta classica e qualche nota scientifica.

La ricetta scientifica delle zeppole di San Giuseppe

Ingredienti (per 6/8 persone)

Per la pasta choux

6 uova
300 g di farina
50 g di burro
½ l di acqua
Zucchero a velo
1 l di olio di semi di arachide
Amarene intere in confettura

Per la crema pasticciera

1 l di latte intero
200 g di tuorli
200 g di zucchero
80 g di amido di mais
1/2 bacca di vaniglia bourbon

1. La pasta choux

Prima della ricetta della pâte à choux, che venne molto dopo, bisogna parlare del pasticciere italiano della corte di Caterina De Medici, tal Panterelli o Penterelli, che aveva scoperto come “bloccare” il vapore all’interno degli impasti.

Il fatto che poi Caterina De Medici andasse in sposa al futuro re Enrico II di Valois, rese possibili, molto probabilmente, le successive migliorie, svelandoci così il perché del nome francese in una delle basi più importanti della pasticceria.

Base poi diversa da ogni altra nella pasticceria sia per il suo notevole contenuto di acqua ed uova sia perché viene cotta prima dell’utilizzo.

Popelini, il successore del capo pasticcere mediceo, la perfezionò.

Fu verso l’inizio del XIX sec. che la ricetta prese il nome di pâte à choux, letteralmente piccoli cavoli, perfezionata con la farciture di crema pasticciera o crema chantilly da Jean Avice e Marie-Antoine Carême.

Versiamo in una pentola l’acqua con il burro (non attendiamo il bollore dell’acqua per unirvi il burro, eviteremo così squilibri nelle dosi) e il pizzico di sale.

Accendiamo il fuoco a fiamma media e quando l’acqua arriva a vigorosa ebollizione, questo per far si che il grasso si disperda uniformemente nell’acqua, versiamo la farina già setacciata tutta insieme.

La farina va versata in un sol colpo e non un po’ alla volta per avere un impasto omogeneo e non con parti con più burro ed altre con meno.

Mescoliamo energicamente per circa 1 minuto con un cucchiaio di legno, fin quando non si forma una pasta densa, abbassiamo il fuoco e continuiamo per circa 5 minuti fino a quando il composto non si staccherà dai bordi della pentola, senza cuocere troppo, peggioreremo solo le capacità di assorbimento della farina.

Spegniamo il fuoco attendiamo che l’impasto cali al di sotto dei 60°C, ovvero la temperatura di coagulazione delle proteine dell’uovo.

Personalmente metto l’impasto in una ciotola di un mixer, apro le uova, le sbatto insieme e verso un po’ alla volta il composto, unendo la seguente parte quando la precedente è stata assorbita bene.

Sbattere le uova prima di inserirle facilita l’assorbimento degli albumi.

E tutta l’aria che inseriamo ci tornerà utile.

Usate una buona farina, di media “forza”, non povera di proteine, comunque.

Lasciare riposare l’impasto, che dovrà risultare liscio ed omogeneo, per 20-25 minuti.

E sappiate che le uova svolgono un ruolo molto importante: i tuorli emulsionano la miscela acqua/burro e insieme agli albumi forniscono le proteine che serviranno per rendere elastico l’impasto, aiutando il glutine ad intrappolare il vapore.

2. Confettura di amarene

Iniziamo con il dire che, come “narrano” le vigenti norme, la confettura è una miscela gelificata di frutta e zuccheri con un contenuto minimo di frutta del 35 per cento nelle confetture e del 45 per cento nelle confetture extra (con qualche eccezione che trovate nel decreto). In una confettura extra quindi si useranno almeno 450 grammi di frutta, miscelata ad acqua e zuccheri, per produrre un kg di prodotto finale.

Poi veniamo a noi: a casa mia chiamata la “conserva d’amarene”, intere, che non si faceva neanche tutti gli anni (poi non ne ho mai capito il perché, forse dovuto ad una particolarità del frutto).

Praticamente sparita dal commercio per molti anni, da qualche tempo alcune aziende, che oserei definire “eroiche”, l’hanno riproposta in commercio.

Non è come quella di casa mia, però s’avvicina abbastanza. Ci servirà in guarnizione.

3. La scelta dell’olio per la frittura

E sì, qui dovremo friggere, altrimenti parte della “napoletanità” della ricetta rischia di sparire.

Ed useremo, come indicato, olio di semi di arachide.

E qui, apriti cielo, partiranno di sicuro gli strali dei “puristi”, di quelli che se è fritto non mangiano nulla, per alcuni versi uniti agli “pseudo-tecnici”, quelli che con una buona dose di sicumera liquideranno la cosa con la frase “basta usare l’olio extra vergine d’oliva che ha il punto di fumo più alto”.

Indubbiamente non esiste un tipo di cottura che metta maggiormente a dura prova la stabilità di un olio.

Quando lo riscaldiamo ad alte temperature l’esposizione all’ossigeno dell’aria e la presenza del cibo possono innescare velocemente un processo di degradazione ossidandolo e formando delle sostanze nocive.

Sappiate che molto stabili sono gli oli contenenti molti grassi saturi, come l’olio di palma o lo strutto. Sappiamo già che il loro uso deve essere comunque limitato perché un eccesso può avere conseguenze negative sulla salute.

Sappiate anche che scaldando un olio ad una certa temperatura comincerà a produrre fumo in modo continuo, ben prima che inizi a bollire. A questa temperatura, chiamata “punto di fumo”, si producono dei fumi tossici contenenti sostanze nocive come l’acroleina.

Insomma è importante friggere in maniera corretta, e non osservare una dieta basata sulla frittura.

E veniamo all’olio extra vergine d’oliva.

La temperatura tipica di una frittura è di circa 180º C.

Qui potremo essere più “dolci” (160º/165º sarà perfetto), ma sappiate che a temperature troppo basse il cibo si impregna di olio mentre a temperature maggiori di 180º alte rischia di bruciare velocemente.

Quindi usare olio con un punto di fumo ben superiore alla temperatura di frittura.

Spesso sentiamo e leggiamo sul web che l’olio extravergine di oliva ha un punto di fumo alto ma questo non è assolutamente vero.

Questo perché più un olio è raffinato, quindi meno sostanze diverse dai trigliceridi contiene, e più è alto il suo punto di fumo.

Le impurezze dell’olio che più influenzano il suo punto di fumo sono gli acidi grassi liberi, non legati alla glicerina.

L’olio extra vergine di oliva è ottenuto per estrazione meccanica e non viene sottoposto a raffinazione. Quindi contiene una piccola quantità di acidi grassi liberi e una serie di altre impurezze che possono abbassare notevolmente il punto di fumo.

Insomma è impossibile definirlo in maniera assoluta: oli provenienti da zone diverse, colture diverse e terreni diversi daranno luogo a prodotti differenti, con acidità e punto di fumo anche distanti.

Olio con bassa acidità? Il punto di fumo può superare i 190°C e potrebbe andare bene per friggere con le dovute attenzioni.
Acidità elevata? Non pensateci neanche, il punto di fumo può scendere di molto al di sotto dei 180° e quindi renderlo per niente adatto alla frittura.

Insomma, per usare l’olio extra vergine d’oliva in frittura dovreste conoscerne completamente le caratteristiche per usarlo in frittura, e forse avere anche le analisi complete.

Perché un mito lo devo sfatare: l’acidità non si può percepire al palato e quella “pungenza” di alcuni oli extravergini è causata dai polifenoli, che tra l’altro sono proprio quelle preziose molecole antiossidanti che rendono più stabile l’olio in fritture prolungate.

Quindi? Utilizziamo l’olio di arachidi, il cui punto di fumo supera i 210ºC.

4. La crema pasticciera

Ne prepareremo una “veloce”, quella del chimico Pere Castells, legato a Ferran Adrià ed a El Bulli.

Conoscete il limite della preparazione classica, basta distrarsi un solo istante e la crema si riempie di grumi.

Mescoliamo bene 80 g di amido con 80 g di latte a temperatura ambiente.

Si formerà qualche grumo, che cercheremo di eliminare.

Un consiglio è quello di iniziare aggiungendo il latte in piccole dosi a tutto l’amido mescolando sino a quando si è formata una pastella. Solo a quel punto aggiungiamo il resto degli 80 g di latte.

Uniamo i 200 g di tuorli e mescoliamo sino a formare una pastella.

Chiaramente il tutto dovrà essere fatto in un recipiente abbastanza grande da poter contenere tutto il liquido.

In un’altra pentola uniamo i 200 g di zucchero al latte rimanente (e se piace, anche il baccello di vaniglia con i semini) e portiamo ad ebollizione vigorosa.

Facciamo attenzione che il latte all’ebollizione non fuoriesca.

Versiamo il latte bollente in una sola volta nella pastella preparata in precedenza e mescoliamo velocemente con una frusta.

Nel giro di pochi secondi, continuando a mescolare vigorosamente, si formerà una crema pasticcera senza nessun grumo.

Il segreto? Nelle diverse temperature: Il tuorlo comincia a coagulare a 65º ed a 70° è già completamente coagulato.

Se però viene diluito con latte e mescolato ad altre sostanze, come lo zucchero e l’amido, può resistere a temperature molto più alte senza gelificare.

Qui il latte deve essere portato all’ebollizione in modo tale che aggiunto ai tuorli e all’amido, la crema raggiunga istantaneamente una temperatura superiore agli 80°, facendo contemporaneamente gelificare l’amido e le proteine del tuorlo.

5. La cottura della zeppola

Mettiamo la pasta choux in una sacca da pasticciere con alla punta una forma a stella.

Dei quadrati di carta forno, direi almeno 10×12, gioco di polso a formare dei cerchi concentrici a salire (giusto un paio di volte, non di più).

Olio in temperatura, “caliamo” un paio di zeppole alla volta, la carta verrà via da sola e la tireremo via con una pinza.

Assisteremo, senza aver messo alcun tipo di lievito, al rigonfiamento delle zeppole, grazie alla capacità del vapore acqueo di fungere da agente lievitante.

Lo strato esterno, con il calore, inizia a cuocersi, restando elastico per un po’ grazie al glutine ed alle proteine dell’uovo.

Man mano che il vapore si sviluppa internamente questo viene trattenuto dall’involucro esterno ormai già quasi coagulato che, essendo ancora elastico, inizia a gonfiarsi.

Ed otteniamo così la cavità che eventualmente ci può servire, potendo così guarnire le zeppole nella maniera che più ci aggrada.

Terminata la frittura, ed adeguatamente raffreddate, le zeppole sono pronte per la guarnizione classica.

Sac à poche con la crema pasticciera precedentemente ottenuta, punta a stella, uno o due giri di crema, amarena di guarnizione.

Serviamo cospargendo di zucchero a velo.

Buon appetito!

[Link: bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it; aifb.it; gazzettadelgusto.it; zeppola.it; Dario Bressanini, La scienza della pasticceria – Gribaudo]

La ricetta scientifica spiegata in 5 punti

Cacio e pepe
Pasta, patate e provola al forno
Ragù napoletano
Papaccelle ‘mbuttunate
Focaccia messinese
Risotto alla parmigiana
Pasta e fagioli
Cartellate pugliesi
Tortelli di zucca
Pastrami di manzo
Cassata siciliana
Spaghetti con le vongole
Pasta alla genovese
Pizza in pala alla romana
Cassoeula
Ossobuco alla milanese
Crêpes
Carbonara
Pasta, patate e provola di Nennella
Ragù alla bolognese
Lasagne
Chiacchiere di Carnevale